Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Stampa | Notifica email    
Email Scheda Utente
Post: 1.245
Età: 36
Sesso: Femminile
OFFLINE
14/01/2009 09:23
 
Quota

Buona lettura
-kay- BOSCO IN CITTÀ

Lorena si trovava lì, nei guai fino al collo, con un cadavere da far sparire! Non poteva muoversi, poteva solo restare lì ad aspettare e a far finta di nulla, in attesa che la gente se ne andasse, poco alla volta. Poteva solo rimanere ferma, intrappolata, a pensare e ripensare a tutte le conseguenze. Le veniva in mente tutto e il contrario di tutto. Di una cosa era certa: quella situazione in un modo o nell’altro le avrebbe per sempre stravolto la vita. E le venne anche in mente, che in fondo, tutto era cominciato da una innocua, stupida domanda, balenatagli in testa anni prima: “Ma che differenza c’è tra un pino ed un abete?” Lei, che prima di “inurbarsi”, era nata e poi vissuta molti anni in collina, circondata da alberi e boschi, davvero non lo sapeva! Risolta quella questione, era poi nata tutta una serie di altre domande del tipo “ma che albero è?” ogni qualvolta si trovava di fronte ad una forma sconosciuta piena di foglie, di rami e di radici.
Ora si rendeva conto di quanto quella prima, banale domanda, fosse stata fondamentale per cambiarle la vita allora, ed ancor più adesso... Certo i cambiamenti erano iniziati poco alla volta, infatti per seguire la sua nuova passione, aveva abbandonato la vita sedentaria da impiegata ostinatamente single. Prima aveva cominciato a coltivare piante in casa, sulle finestre, sui balconi. Poi ad andar per boschi e per parchi (sia in città che al vecchio paese, dove c’era la casa dei suoi), con i libri di botanica in mano a guardar le piante, a raccogliere le foglie, i fiori ed i semi, a catalogarli. Oppure partecipando agli eventi, come quello sull’agricoltura bio, avvenuto appena la settimana prima, sulle antiche piante da frutto, che però non venivano più coltivate, ma che erano tutta una riscoperta! Ormai gran parte della materia non avevano più mistero per lei, riconosceva tutto, persino le piante rare e quasi sconosciute. E poi quale entusiasmo ad immergersi nel verde! E quale entusiasmo vedere, ad ogni stagione, i cambiamenti della natura. Abbandonarsi a quel perpetuo andare e venire, a quel riflusso costante, a quei continui mutamenti nel ritorno stagionale. La consapevolezza del tempo che passa, visibile sotto i suoi occhi, anziché rattristarla come una volta, la faceva sentire più viva e partecipe del tutto. La sua Milano, che comunque ancora amava, la città nella quale aveva studiato e si era laureata, dove viveva e lavorava, le pareva ormai lontana, insignificante, piccola. A volte addirittura sentimenti di commozione la coglievano nell’osservare la natura. Non capiva più come gli altri facessero a vivere, senza neppure accorgersi, a primavera, del maggiociondolo dai grappoli giallo splendente e dal delicato profumo. O delle foglie palmate degli aceri, rosseggianti controluce nel cielo azzurro d’estate. O delle dorate foglie del ginkgo, ventagli svolazzanti nel vento d’autunno. Insomma quei piccoli particolari che riempiono la vita e che la vita di città, ormai, non fa quasi più notare. E poi aveva anche incontrato Roberto, che faceva jogging tutte le sere, lungo il naviglio, di fianco al parco. Ormai si frequentavano da un po’, anche se non era ancora diventata una cosa seria…
Lorena si riprese bruscamente dalle divagazioni delle mente. Adesso doveva pensare a cosa fare! Aveva un cadavere tra i piedi, da far sparire. Mancava poco alla sera, le ombre si stavano allungando dalla cima degli alberi, creando forme inquietanti sui prati. Il parco era molto tranquillo, si stava svuotando, la gente se ne andava poco alla volta per la cena. Ancora qualche ciclista sbucava da una pista, per sparire velocemente verso la direzione opposta. E pensare che quei due, la prima volta, li aveva incontrati proprio lì: il signor Gino e la badante dell’est, Ludmila dal dolce sguardo azzurro ed acquoso. Abitavano vicino e spesso lei lo accompagnava a prendere un po’ d’aria nel verde. Il signor Gino, sempre così gentile, era morto anche lui! Anche lui probabilmente stecchito per colpa di Lorena! Ma ora doveva star lì e continuare ad aspettare, fingere di leggere, con il cadavere vicino, a raffreddarsi; e mentre aspettava doveva concentrarsi, pensare ad una maniera per liberarsene, ma immancabilmente tornava a pensare a come era cominciata tutta quella storia...
...Quando Lorena tornava dalle esplorazioni nel Bosco in Città, si fermava spesso in quella zona del parco, in quell’area attrezzata per i picnic: lì poteva riposarsi, bere un po’ d’acqua alla fontanella e prendere il sole. Lì, li aveva incontrati tante volte, anche loro a fare una passeggiata e... poco a poco, avevano fatto amicizia, come con Roberto. Ludmila era una donna sui quarantacinque, alta ed energica. Faceva la badante in Italia da parecchi anni e si occupava del Gino da più di tre. Dopo circa una decina di mesi quei due si erano sposati; ma la cosa non stupì Lorena, nonostante la differenza di età, perché aveva già sentito tante storie di matrimoni simili. Probabilmente lui, che era tutto solo, senza parenti, aveva trovato un modo per garantirsi una assistenza a vita; lei invece si era assicurata un permesso di soggiorno, una bella casa ed una discreta rendita. Non condannava Ludmila per questo, e poi del resto, a parte accudire al vecchietto, non doveva essere stato un gran sacrificio; Lorena infatti era quasi sicura che quel matrimonio non fosse mai stato consumato. L’amicizia fra le due donne si un poco alla volta consolidata: spesso lasciavano il signor Gino, sulla sua carrozzella, a farsi un pisolino, al caldo sole del tardo pomeriggio ed andavano nel grande bosco vicino al parco; Lorena era entusiasta nel fare partecipe l’altra del mistero della natura, nello svelarle le proprietà delle piante, lei che era diventata un’appassionata erborista. Però avrebbe dovuto accorgersi dell’interessamento di Ludmila verso certi fiori, verso certe piante…
Dopo alcuni mesi dal matrimonio si era notato che nella coppia qualcosa non andava, anzitutto, le loro venute al parco, si erano fatte molto più rare; non solo, comprensibilmente, nei mesi freddi, ma anche adesso, che era piena primavera. Poi spesso il Gino sembrava catatonico e Lorena era quasi certa che la mogliettina gli somministrasse forti calmanti. Quando era sveglio, era sempre molto gentile, ma gli occhi erano spesso velati da uno sguardo triste; però non lo aveva mai sentito lamentarsi. Inoltre, una delle ultime volte che si erano incontrati, Lorena aveva notato, addosso al povero vecchietto, segni di percosse; ma si era ben guardata dal fare domande imbarazzanti. Infine un’altra volta, quando Ludmila era andata al chiosco, per una bibita, il signor Gino era riuscito a lamentarsi dell’uomo che si era installato a casa loro; Ludmila diceva che fosse suo fratello, che lo voleva ospitare per un po’ di tempo, ma Gino non ne era molto convinto.
Infine il signor Gino era morto, per infarto, avevano detto. Lorena non aveva prove, ma, dentro di sé, era profondamente convinta che ci fosse lo zampino di Ludmila. E si sentiva anche un po’ responsabile: non era forse stata lei, a spiegare a quella donna, l’effetto cardiotonico della digitale e di altri fiori? Comunque non la poteva accusare di nulla, perciò fece buon viso a cattivo gioco, andò al funerale e continuò con faccia tosta a fingere di essere amichevole ogni volta che incontrava Ludmila, perché la donna frequentava ancora il parco, ci veniva ogni tanto a passeggiare ed a prendere il sole.
Dentro di se però Lorena non si sentiva a posto con sé stessa, perciò quando, dopo alcuni mesi dalla morte di Gino, Ludmila le disse che si sarebbe risposata, con uno del suo paese, Lorena trattenne a stento la rabbia. Decise che in qualche maniera gliela avrebbe fatta pagare, un piccola vendetta per essere stata usata così; e poi almeno lo doveva, al povero signor Gino, sempre così caro con lei.
Si sa che la vendetta è un piatto che si serve freddo. Quindi, molte settimane dopo, visto che Ludmila, dalla pelle così pallida, si era scottata prendendo il sole, Lorena le aveva preparato una specialità erboristica, una fantastica pomata doposole. In realtà, assieme ad erbe emollienti e rinfrescanti, ci aveva messo dentro un atroce mix di erbe irritanti, che sulla pelle arrossata avrebbe fatto faville. Ma Lorena non avrebbe mai immaginato che Ludmila volesse provarla subito! E soprattutto non avrebbe mai immaginato che la donna ci restasse secca! Probabilmente si era presa uno shock anafilattico, a causa di una di quelle erbe. O forse aveva sbagliato le dosi, del resto c’erano anche erbe un po’ tossiche, in quell’intruglio! Era bastato un attimo, poche convulsioni e amen, addio Ludmila.
Il primo istinto di Lorena era stato quello di svignarsela, prendere le sue cose, soprattutto la pomata incriminata …e via. Ma troppe persone le avevano viste assieme quel pomeriggio! Chiamare soccorso e fingere che le era capitato un malore? Ma se poi facevano un esame tossicologico al cadavere? No, no! Meglio di no!
Quindi si era messa lì ad aspettare, aveva piazzato il cappello in faccia a Ludmila, come se si fosse addormentata; mentre lei, invece, aveva cominciato a fingere di leggere ed a pensare, a pensare e ripensare a come cavarsela...e a come era cominciata tutta quella dannata storia.

Finalmente era giunta la sera, il via vai era cessato, l’ultima persona era passato da quasi mezz’ora e adesso Lorena pensava di potere agire con tranquillità. Comunque aspettò ancora per una ventina di minuti, nel caso capitasse qualche ritardatario. Il parco doveva aver chiuso da un po’, ma per lei non era un problema uscire, scavalcando la cinta, per raggiungere la sua macchina. Altre volte le era capitato di essere in ritardo e di dovere uscire così. Tanto i custodi se ne fregavano, non li aveva mai visti allontanarsi molto dal loro chiosco, all’entrata. Il vero problema era che doveva far sparire il corpo, così nessuno avrebbe mai potuto risalire a lei. Se mai qualcuno fosse arrivato ad interrogarla, lei avrebbe semplicemente detto che si, quel pomeriggio… aveva incontrato Ludmila; avevano passeggiato un poco assieme, ma poi, come sempre, ognuna era andata per la sua strada. Del resto non si erano praticamente mai frequentate al di fuori del parco e non esisteva alcun motivo per cui lei dovesse avercela con quella donna, insomma, si sentiva al di sopra di ogni sospetto. Con tutto quel pensare per ore, aveva già escogitato come fare. Si alzò in piedi, raccolse tutte le sue forze e con enorme fatica trascinò il cadavere sul prato, fino alla riva del laghetto, quindi lo spogliò completamente. Con i lacci delle sue scarpe, legò attorno al corpo diverse pietre piatte, lo avrebbe gettato nell’acqua, che era sempre melmosa ed al centro doveva essere profonda almeno due o tre metri, se non di più. Sperava che non venisse mai ritrovato, ma anche se fosse, sperava non venisse mai identificato, grazie magari ad un bel po’ di mesi di putredine. Era per quel motivo, che tutti i vestiti e gli effetti personali di Ludmila, che si era infilati nel borsone, li avrebbe gettati in diversi cassonetti, all’altro capo della città.
Era ormai passato il tramonto, l’aria cominciava ad essere frizzante, mentre il cielo stava passando dal celeste al violaceo, ma ci sarebbe stato chiaro per almeno un’altra ora. Nel fitto del bosco gli uccelli diurni si stavano ritirando e facevano sentire i loro ultimi versi; mentre, sulla sua testa, gli storni facevano i loro ultimi giri spettacolari, in alto nel cielo; invece le papere del laghetto erano sparite, forse avevano avuto sentore del dramma che si stava consumando e non avevano voluto prendervi parte.
Lorena percorse tutta la sponda del lago, fino al piccolo pontile di legno, sul lato opposto; staccò uno dei pedalò, che erano legati lì, vi saltò sopra e quindi iniziò a pedalare con vigore, per raggiungere il corpo di Ludmila sulla riva.
‘Stupida! Stupida! Stupida!’ iniziò a dirsi, mentre si avvicinava. Perché le venne in mente che le pietre avrebbe dovute legarle solo dopo averla issata sul pedalò… Non prima! Adesso sarebbe stata troppo pesante. Saltò perciò sulla riva e con enorme pazienza cominciò a slegare tutti quei nodi. Quindi avvicinò il pedalò e con uno sforzo sovrumano vi issò sopra il cadavere. Naturalmente scivolò nell’acqua gelida e si bagnò fin quasi alla vita. Ma pazienza, perché, girandoci attorno, riuscì a sistemare ancor meglio il peso morto. Quindi ricominciò a legare le pietre una ad una, stringendole bene attorno al collo, alle braccia ed alle gambe. Era esausta! Con un altro sforzo si arrampicò sul pedalò e comincio a dirigerlo verso il centro del laghetto.
Quando pensò di aver raggiunto un punto abbastanza profondo, cominciò a spingere il cadavere in acqua, ma sul quel pedalò traballante, non era semplice, se voleva evitare di ribaltarsi. E naturalmente quel corpo maledetto doveva incastrarsi! Imprecando sottovoce, Lorena si sporse, cercando di liberare la corda e di spingerlo giù. ‘Come cavolo ha fatto ad annodarsi così!?’ pensò. Ma quando sembrò che finalmente fosse riuscita a districarlo, ecco sentire un qualcosa tirarlo dall’altra parte! Verso la profondità. Alla donna venne quasi un colpo e saltò all’indietro spaventata, cercando di aggrapparsi. Ed ecco subito un altro strattone! Che quasi rovesciò il pedalò. ‘Ma cosa diavolo è!?’ pensò adesso. Il pedalò aveva fatto quasi un mezzo giro su se stesso e, per il peso del corpo, ora pendeva tutto da una parte. Lorena angosciata, scrutava la superficie dell’acqua, tutto attorno a lei, non osando neppure fare un’ipotesi. Infine, con un ultimo colpo, la corda venne strappata ed il cadavere trascinato giù; il tuffo fu seguito, subito dopo, da un tremendo gorgoglio di bolle, che increspò la superficie dell’acqua; accompagnato da un odore nauseabondo.
Agghiacciata, Lorena cominciò vigorosamente a darci dentro con i pedali. In un baleno andò a sbattere contro la riva, saltò giù e cominciò a correre a perdifiato, senza guardarsi indietro, ma senza neppure guardare la direzione, bastava allontanarsi da quella cosa! Corse e corse, finché, esausta, non si lasciò cadere sulla soffice erba del prato, a riprendere fiato. Dopo alcuni momenti di fiatone, si guardò attorno e notò che si era fatto quasi buio, però sapeva esattamente in che punto si trovava; ‘porca paletta!’ pensò, invece di dirigersi alla recinzione più vicina, era corsa verso il bosco! Adesso ci avrebbe impiegato più tempo, ma non aveva assolutamente intenzione di passare di nuovo vicino a quel dannato lago; piuttosto che ripercorrere quella strada, decise che, per andarsene, avrebbe fatto un lungo giro sul sentiero interno.
Perciò si alzò ed iniziò a seguire alacremente il sentiero, che attraverso il largo prato occidentale, dalla parte opposta del lago, l’avrebbe portata alla recinzione sulla strada. Era sempre più scuro ed una luna a tre quarti, era chiaramente visibile ad est, sopra le cime degli alberi. Il bosco era vicino, con i suoi rami che si allungavano verso il prato, con le sue ombre e gli animali che si nascondevano ed emettevano i loro versi. ‘Ecco, quello doveva proprio essere un gufo!’ pensò la giovane donna. Cercò di scacciare ogni timore, del resto era già stata lì, quando si era fatto buio. E poi lei non era mai stata molto suggestionabile, però quella sera…dopo tutto quanto era successo… chiunque sarebbe stato preda della più fervida immaginazione…
Difatti cominciò a provare la netta sensazione di venire osservata. Forse erano solo gli uccelli notturni, tra i rami… Comunque allungò il passo, resistendo all’idea di voltarsi, per vedere se c’era qualcuno…o qualcosa. Purtroppo il grande prato era finito e se voleva seguire ancora il sentiero, doveva per forza passare in mezzo agli alberi. E la sensazione di essere osservata persisteva! Ma ormai aveva ripreso fiato ed era pronta a ricominciare a correre, quando le parve di udire una flebile voce: “…aspetta! …non temere!”
Si bloccò di colpo terrorizzata, pronta a scattare di nuovo in una corsa sfrenata. Si voltò, si girò tutto attorno, ma non vide nulla. “Ti ho chiesto di aspettare …Da me non devi temere nulla, non avere paura” La voce adesso era più chiara, anche se ancora debole, era una voce femminile. Intanto una leggera brezza le sfiorò dolcemente la pelle, le sollevò i capelli. Le vennero i brividi, ma facendosi coraggio chiese. “Chi… chi sei? Fatti vedere…”
La brezza divenne più sostenuta…sollevando foglie e polvere dal terreno “Ah!…voi piccoli uomini…se non vedete… non credete mai…” si sentì dire. Poi, proprio sul sentiero davanti a lei, il vento fece un mulinello, attirando la polvere, attirando i vapori dalla bruma che cominciava a salire, lungo il bordo del bosco. Ed ecco formarsi una figura, trasparente e leggera…ma sempre più definita, man mano che migliaia di piccole particelle si addensavano e trovavano la loro collocazione…davanti a lei ora c’era l’immagine di una dolce e cara vecchina, appoggiata ad un bastone, dallo sguardo penetrante e saggio.
“Va meglio così?” le chiese “O forse mi preferiresti in un’altra maniera?…eh, eh, eh!” Ed ecco la figura farsi più imponente, la vecchina diventare una bellissima giovane donna, dalle chiome fluenti che le scendevano lungo le spalle. Una donna sicura di sé, autorevole ed altera.
Lorena era impietrita, e allo stesso tempo incuriosita: “Co…Cosa sei?”
“Tu mi conosci, ma non lo sai…tante volte ti sei seduta sotto i miei rami. Sono lo spirito della rovere, che si trova proprio dietro alle tue spalle…”
“E…e che cosa vuoi da me? Spi…spirito della rovere?” chiese Lorena sempre più intimorita.
“Anzitutto ti chiedo di non avere paura, rilassati. Mi sono manifestata proprio perché non volevo perderti” si sentì dire, mentre lo sguardo della figura sembrava addolcirsi “Tu mi sei cara. Dopo quello che è ti successo stasera, sapevo che non avresti mai più voluto tornare qui al parco, voglio convincerti che, invece, non hai nulla da temere”
“Ma…ma... giù al lago…”
“Oh…quello…è stato solo lo spirito del vecchio salice, sai… il grande salice sulla riva del lago, non so se voleva aiutarti…ma di certo ti ha fatto un bello scherzo! Eh? Ti ha quasi fatto morire di paura…” Le disse, trattenendo un sorriso.
“Eh già…” le rispose Lorena, digrignando i denti, in quello che sperava potesse sembrare un sorriso, mentre le gambe ancora le si scioglievano come gelatina; naturalmente non le era per nulla passata la voglia di scappare via… o almeno di urlare spaventata, per scaricare la tensione. Ma seppe trattenersi…ancora per un po’…
“Allora mi prometti che tornerai a trovarci? Non abbandonare questo parco ed il bosco. Sono poche le persone che vengono qua e che ci amano come te. La maggior parte degli uomini ci passano accanto e quasi non ci degnano di uno sguardo. Tu invece ci osservi attentamente e ci apprezzi, prendi in mano le nostre foglie, accarezzi dolcemente la corteccia…”
“Ma…ma tutte le piante hanno uno spirito?” le chiese Lorena.
“Oh si, certo…solo che i piccoli fiori, le piccole piante… ne hanno uno talmente leggero e flebile, che non riuscirebbero mai a manifestarsi. Io invece, lo sai, sono molto vecchia” e così dicendo la figura tornò a quella precedente “ho quasi cinquecento anni. Ogni anno che passa divento più forte e più forte diventa la mia capacità di manifestarmi.”
“Mi raccomando però…” continuò lo spirito della rovere “non raccontare mai a nessuno ciò che ti ho rivelato…a parte il fatto che… probabilmente non ti crederà nessuno e ti prenderanno per pazza…”
Lorena pensò di esserlo già diventata, comunque proseguì a domandare: “Quindi…intendi dire che… tutte le piante di una certa età…che sono qui…”
“Esatto, cara mia…potrebbero venire qui, a parlarti, proprio come sto facendo io adesso …ma non penso siano interessati…anzi so già che dopo, molti di loro, mi faranno la predica, per essermi immischiata negli affari degli uomini…scusa ma per me è un grande sforzo mantenere questa forma visibile, fatta d’aria e polvere …ti spiace se la rilascio? Poi continueremo a parlare?” e così dicendo, la forma si dissolse velocemente davanti a lei.
“Volevo dirti un’altra cosa…” si sentì quindi sussurrare Lorena nell’orecchio, da una leggera brezza che le sfiorava la pelle “Quello che hai fatto a quella donna, è stato un incidente…non sentirti troppo in colpa…anche perché avevi ragione…lei non era affatto innocente.”
“Intendi dire che avevo ragione nel sospettarla?”
“Ma certo!” le sussurrò lo spirito “l’ho osservata io stessa, è venuta a raccogliere le piante che ha usato per avvelenarlo”
“Oh!” venne in mente a Lorena “ma anch’io raccolgo spesso le erbe…se ci sono degli spiriti in ciascuna…”
“Non ti devi preoccupare per questo” la rassicurò la rovere “è nella natura delle cose, del ciclo a cui, noi tutti, anche tu, siamo legati…le piccole piante, soprattutto quelle annuali, hanno appena la consapevolezza di esistere…e rivivono velocemente nei loro semi, che spargono sui prati…”
“Eh voi?” esclamò Lorena, adesso consapevole di una tragedia.
“Ormai sono millenni che l’uomo non è più un semplice animale, in mezzo agli altri…” rispose un po’ amara la rovere… “accanto a noi è cresciuto, si è evoluto, come dite voi…si è impadronito di ciò che lo circondava, prima con timore e rispetto, adesso senza neppure più quello…ma ormai è da così tanto tempo che noi piante conosciamo il rischio di venire tagliate, schiantate, fatte a pezzi dall’uomo…come prima lo eravamo solo dal vento, o dai fulmini o dagli incendi… posso solo dire che ci siamo un poco abituate… anche questo è il ciclo… speriamo almeno di fare in tempo a spargere anche noi i nostri semi… per dare vita ad una nuova generazione…”
“Ma non provate a ribellarvi?”
“E cosa potrebbe mai fare, un povero spirito d’albero, contro una scure di ferro…o una motosega? Solo le più antiche e potenti di noi, hanno la forza di parlare e di mostrarsi, come ho fatto io…ma l’uomo è ormai sordo… solo pochi hanno ancora l’amore per ascoltarci…come te, mia cara…”
Continuarono a conversare ancora per molto. Ma alla fine Lorena, visto che ormai era diventata notte fonda, si congedò, con la promessa di tornare presto. Ma prima di tornare a casa a dormire, si ricordò di spargere con cura, nei cassonetti di mezza città, gli effetti personali di Ludmila.

Lorena mantenne la parola, anche se con molta titubanza, soprattutto le prime volte; tornò dunque al parco, come faceva prima, per poi fermarsi spesso, verso sera, a chiacchierare con lo spirito della rovere, tante volte fino a notte inoltrata. La rovere per lei divenne così una carissima amica ed una maestra, grazie a tutta l’esperienza accumulata nella sua lunghissima vita. Grazie ai suoi insegnamenti diventò ancor più brava nell’uso delle erbe e lasciò il suo noioso lavoro di ufficio per dedicarsi a quello di naturopata. Ma prudentemente, Lorena si tenne sempre lontana dal lago e dal suo antico salice. Invece, dagli altri spiriti del bosco, non ebbe mai alcun segno. Di sicuro però, quando adesso si aggirava tra le piante, le vedeva sotto tutta una nuova luce. Chissà se un giorno avrebbe avuto il coraggio di raccontare questa incredibile storia a Roberto, presto si sarebbero sposati e non le sembrava giusto tenerlo all’oscuro, ma aveva promesso allo spirito di mantenere la segretezza, e temeva che lui la prendesse davvero per una pazza.
Infine, dopo quasi un anno, Lorena venne a sapere che il nuovo marito di Ludmila, ancora installato a casa di Gino, era stato arrestato per la scomparsa della donna e per una serie di altri reati. Dopo che il cadavere di Gino venne riesumato e gli venne fatta una accurata autopsia, quell’uomo confessò di essere stato complice nel suo assassinio, ma si disse sempre innocente a proposito della scomparsa di sua moglie: credeva che era scappata da qualche parte, con qualche altro uomo.
Nessuno venne mai a chiedere nulla a Lorena, mentre il corpo di Ludmila giace ancora laggiù, in fondo al laghetto delle papere …e del salice.

You can never know everything,
and part of what you know is always wrong.
Perhaps even the most important part.
A portion of wisdom lies in knowing that.
A portion of courage lies in going on anyways.


Email Scheda Utente
Post: 1.245
Età: 36
Sesso: Femminile
OFFLINE
14/01/2009 10:24
 
Quota

Psyluke

“Andiamocene, oggi non riusciremo a far nulla con queste persone. Domani torneremo con le forze speciali”
“E’ sicuro, comandante? Di sicuro non sarà una cosa che rimarrà nascosta, e molte persone potrebbero non esserne contente”
“Gli ordini sono ordini. Domani questa scuola sarà svuotata, e dopodomani tornerà in piena funzione. Ora andiamocene, si è fatto tardi e oggi ho lavorato fin troppo”
“Come vuole lei.”

All’interno, Marco guardò le 9 persone che erano con lui. I sacchi a pelo erano disposti in circolo all’interno della biblioteca. Con 10 persone, potevano dormire l’intera notte e fare 1 ora di turni di guardia a testa. Di certo non dovevano fidarsi delle sirene della polizia che si allontanavano: non dovevano farsi trovare impreparati in caso di un’irruzione notturna. Anna teneva in mano le bacchette di diversa lunghezza che avrebbero determinato a sorte i turni. Lui si era offerto per primo dal momento che era l’unico abituato ad andare a dormire tardi, quindi non era un problema per lui fare il primo turno. Guardò gli altri estrarre le rispettive bacchette e poi mettersi a dormire nei loro sacchi a pelo. Quando tutti furono a letto, si alzò e andò a perlustrare i corridoi del complesso universitario. Non spense le luci perché non voleva che qualcuno avesse la possibilità di nascondersi. Per passare quell’ora, decise di fare un salto nei laboratori di fisica a giocare con le attrezzature. Vide subito quello che più lo interessava: l’aula dei laser. Per lui che di scienza non capiva nulla, quegli oggetti erano un po’ misteriosi, pensava che la loro esistenza fosse relegata ai film di fantascienza, ma aveva scoperto che esistevano veramente solo due giorni prima. Quando entrò nell’aula, uno dei laser era acceso. Che strano, qualcuno aveva dimenticato uno strumento del genere acceso. Tuttavia non aveva idea di come spegnerlo, quindi premette il primo interruttore che trovò, prima o poi avrebbe trovato quello giusto.

- BAM! -

Tutti stavano dormendo quando si sentì l’esplosione. La prima cosa che notarono era che le luci si erano spente.
“Cos’è successo?” – “Prendete le torce, qualcosa non va” – “Non ci staranno mica già venendo per portarci fuori a forza?” – e altre frasi si diffusero nella stanza finché tutti non ebbero acceso le torce, dopodiché calò il silenzio.
“Bene, anzi male, malissimo – disse Carlo, che prese per primo la parola – ora dobbiamo dividerci in gruppi da due per non farci trovare. Soprattutto cerchiamo di capire cos’è successo, quindi andiamo in direzioni diverse. Avanti, non dobbiamo stare qui ancora per molto, sapevano dove ci trovavamo prima che se ne andassero.” Quindi i gruppi da due furono creati a caso, Carlo invece rimase da solo a sorvegliare quella zona.

“Ok, ho fatto la cazzata della mia vita” pensò Marco quando tutto quello che riusciva a vedere era un muro verde.
“Hai detto bene - gli disse una voce - peccato che sarai tu l’unico che non pagherà per questo errore”
“Chi ha parlato?” disse Marco. Provò a guardarsi in giro, anche se nel suo stato attuale non sarebbe servito a niente. Non riuscì nemmeno a fare quello, sembrava che fosse stato completamente sotterrato.
“Non ti interessa, tanto non mi crederesti dal momento che non puoi vedermi. Tuttavia sono qui per parlare con te. Per farti passare il tempo, fino a domani mattina, mentre i tuoi compagni non ti troveranno e finiranno nei luoghi sbagliati.”

Carlo guardò gli altri uscire dalla biblioteca finché la porta non si richiuse. Sospirò e pensò a Marco che era fuori da solo, come lui del resto. Ma almeno era sicuro che lui stesso fosse al sicuro, per il momento. Tese le orecchie: gli altri erano già abbastanza lontani, non si sentivano più i loro passi. Quindi si nascose sotto una delle scrivanie presenti nella biblioteca, sperando che, nel caso stessero già tentando di portarli via a forza, non avessero insistito più di tanto nell’abbattere le porte che aveva appena bloccato.

Anna e Annalisa – chiamata da tutti Anna – salirono le prime scale che trovarono mentre gli altri decisero di scendere. Era toccato a loro sorvegliare il piano superiore, anche se molto probabilmente non avrebbero trovato nessuno. Chi avrebbe mai avuto intenzione di andare da quella parte? Sopra c’erano solo i laboratori e nessuno di loro si trovava da quelle parti. A parte Marco, forse. Dove poteva essersi cacciato? Magari era stato lui a fare il danno, di solito metteva mano anche a cose di cui non conosceva nulla. Mentre salivano le scale, i rumori provenienti dai loro compagni cessarono, e a loro si sostituì il più completo silenzio. A quanto pareva, Marco non era nemmeno lì sopra; mentre percorrevano i corridoi, il completo silenzio non accennava a scomparire.
“Ma non sembra anche a te che ci sia troppo silenzio qui? - esordì Annalisa per stemperare la tensione. - Voglio dire, non è poi così tardi, qualche rumore da fuori dovrebbe sentirsi!”
“Ti stai facendo troppe paranoie” rispose Anna, ma nemmeno lei sembrava troppo convinta di quello che aveva appena detto, dal momento che appoggiò l’orecchio alla prima finestra che trovò. “Esatto, puoi sentire l’esterno appoggiando l’orecchio alla finestra”
“Sì ma non può esserci tutta questa differenza, i vetri non sono così spessi!”
“Ma qui siamo nei luoghi dove si costruiscono meraviglie, vuoi che non abbiano dei vetri insonorizzati?”
“Se lo dici tu… ehi guarda, vedi anche tu una luce accesa?”
“Ti stai facendo inf… - Anna si interruppe, vide anche lei che dalla fessura di una porta usciva un po’ di luce – stavolta hai ragione, sembra che lì dentro la luce sia rimasta accesa, che strano. Stai all’erta, potrebbe anche essere una trappola.”
Quindi si avvicinarono alla porta disponendosi ad entrambi i lati di essa. Dopodiché Anna aprì di scatto la porta.

“Oh, guarda, a quanto pare è già arrivato qualcuno. Dovrebbero essere onorati di essere i primi ad assistere a questo spettacolo.”
Marco provò ancora a muoversi ma non ci riuscì. Poteva solo sentire delle voci confuse provenire da molto vicino.

Quello che Annalisa vide oltre la porta la lasciò di stucco. Appena fece un passo dentro quello che prima era una stanza, si ritrovò in mezzo ad un immenso prato fiorito. Il paesaggio sembrava stendersi all’infinito, nemmeno un’altura a vista d’occhio; era un’immensa distesa senza fine.
“Mamma!” sentì dire dietro di lei. Quando si voltò, vide un bambino che correva verso di lei. O, meglio, non sapeva come altro definirlo: aveva la pelle verde e i capelli non sembravano simili a quelli di una persona normale, tuttavia per il resto poteva sembrarlo. Vide di sfuggita le proprie mani, e notò con orrore che erano diventate verdi anch’esse. Mentre le osservava, ebbe l’impulso di controllare se non fosse cambiato anche il viso, scoprendo soltanto che si ritrovava con una barba corta.
“Mamma!” la sua attenzione tornò sul bambino, ma questa volta guardò dietro a lui. Una figura spaventosa, completamente nera, rincorreva il bambino, che non sembrava accorgersi di nulla. Da lontano sembrava un miraggio, ma quando si fece più vicina la figura si delineò, anche se appariva come un fantasma nero in mezzo alla luce. Brandiva una spada, e la stava sollevando in aria mentre si avvicinava ad una velocità che avrebbe detto irreale. Annalisa fece istintivamente un passo avanti e allungò una mano, poi senti una mano che si posava sulla sua spalla e…
“Anna… Anna!” la voce di Anna la riportò alla realtà. Di colpo il mondo in cui sembrava che fosse entrata svanì in un lampo di luce e quello che vide fu solo una stanza vuota. “Quando ho aperto la porta sembrava che avessi uno sguardo allucinato. Sei sicura di stare bene? Sembrava che ti volessi lanciare in avanti!”
“Io… - provò a dire Annalisa, mentre ricollocava le idee al loro posto – sì, sto bene. E’ che ero stupita dal fatto che questa stanza non sia al buio come le altre. Voglio dire, guarda! E’ una stanza completamente vuota! Per essere ancora illuminata dovrà avere un generatore autonomo da qualche parte”
“Allora andiamo a cercarlo, potrebbe essere che il suo circuito elettrico sia separato dal resto dell’edificio ma che ci sia un quadro centrale con tutti gli altri”
“Se lo dici tu… io non mi intendo minimamente di queste cose”
Così continuarono a vagare per i corridoi.

Carlo era sempre più nervoso mentre aspettava che accadesse qualcosa. Sembrava che l’intero mondo si fosse ridotto alla stanza in cui si trovava, da quando era rimasto da solo non aveva sentito alcun rumore provenire dall’esterno. Possibile che tutto doveva essersi zittito all’improvviso? Bussò sul legno di un tavolo: il rumore sembrava risuonare normalmente, se c’era un problema era solo all’esterno. Improvvisamente comparì un rumore. Carlo non fece in tempo a sospirare di sollievo che il piccolo rumore diventò un forte respiro affannoso, e ovviamente non era il suo. Guardò in tutte le direzioni ma non vide nulla. Mentre stava pensando a dove poteva provenire quel rumore, sentì una goccia cadere tra i suoi capelli.

Marco sentì la voce misteriosa ridere sempre più forte. “Che brave – disse, dopo che ebbe smesso – mi hanno pure aperto la porta! Ora credo che farò visita a tutti qui dentro…”
Provò ancora una volta a muoversi. Nulla. Sembrava intrappolato da forze invisibili. Era inerme di fronte a quello che stava accadendo; ma almeno poteva pensare per farsi ascoltare. “Chi sei tu? Da dove vieni? E cosa vuoi fare qui?”
Un’altra risata. “Non servirebbe a niente risponderti. Non capiresti ciò che ti dovrei dire.”
“Voglio solo saperlo, non importa se ti capisco o no.”
“Uhm… va bene, se questo può servire a farti passare il tempo. Peccato che tra nemmeno un minuto perderai il filo del discorso, la premessa da fare è lunghissima e molto complicata. E’ risaputo che all’azione di una forza corrisponde una reazione uguale e contraria…”
Marco capì subito che non avrebbe compreso nulla.

Andrea stava inseguendo il suo compagno di gruppo Luigi che si era messo improvvisamente a correre. Avevano deciso di rimanere al piano terra per aiutare Carlo che era rimasto da solo, per il piano inferiore basavano gli altri due ruppi Ma una volta tornati al piano superiore, Luigi aveva sentito degli strani rumori che, a giudicare dalla reazione, lo avevano spaventato. Si dirigeva verso l’ingresso, quindi era chiaro che volesse fuggire dall’edificio. Ma Andrea non avrebbe permesso che le sue stupide paure avessero il sopravvento: lo avrebbe riportato alla ragione anche legandogli mani e piedi. Tuttavia pareva che l’inseguimento dovesse continuare fuori: Luigi stava raggiungendo il grande ingresso centrale. All’improvviso si fermò. Sembrava che avesse cambiato idea, fino a quando non si voltò per guardarlo.

Veronica si appese al braccio di Francesco quando sentì un tonfo sordo provenire dal piano superiore. Francesco sbuffò: lei non era di certo una delle donne più leggere al mondo e lui non era di certo uno dei più robusti. Dopodiché Veronica cominciò a lamentarsi, come suo solito.
“Mio dio, cosa succedendo qui? E’ tutto così buio e strano… sto già immaginando cose che non dovrebbero esserci, ad esempio, come può esserci una persona lì in fondo, e come posso vederla se è immersa nel buio? Oh, povera me…”
Francesco rise: “Stai diventando troppo suscettibile, in fin dei conti è solo un black-out.” Ma anche lui vedeva qualcosa in fondo al corridoio. Non voleva ammetterlo, ma forse anche lui cominciava a immaginare le cose nel buio. Eppure la figura era fin troppo materiale, era talmente definita che poteva essere reale.
A malincuore Francesco disse: “Anch’io vedo qualcuno in fondo a questo corridoio. Eppure non mi sembra che lo stia immaginando.”
“Cominciavo a pensarlo anch’io. Nascondiamoci, non sarà di sicuro qualcuno dei nostri.”
Appena Veronica finì di pronunciare queste parole, il corridoio sfociò in un piccolo atrio, così si nascosero in due angoli opposti della stanza. Quando si furono sistemati, cominciarono a sentire un rumore di passi. Quindi effettivamente qualcuno era presente da quelle parti. I passi si avvicinavano, si facevano sempre più forti, e quando il rumore entrò nell’atrio… la figura che si aspettavano di vedere apparse dal lato dove erano entrati. Sorrideva.

“Quindi possiamo dire che l’entropia…”
Se c’era una cosa positiva di quella voce, era che almeno lo faceva rimanere sveglio nonostante parlasse di cose noiosissime e di nessuna utilità per lui. Intanto, Marco provava a muoversi e a liberarsi dalle catene invisibili che lo stavano tenendo completamente bloccato. Ora che ci pensava, però, non potevano essere catene. Lui non poteva muovere un singolo muscolo, per cui anche tentare di smuovere fisicamente la situazione non era possibile. Doveva pensare.

Carlo alzò lo sguardo al soffitto con orrore. La stanza non aveva più un soffitto. Aveva qualcos’altro; non poteva essere il cielo, non c’erano stelle e al loro posto si vedevano delle scie luminose. Inoltre, sembrava che fosse liquido, c’erano increspature vicino a dove alcune gocce d’acqua cadevano a terra. Mentre camminava con lo sguardo al soffitto, inciampò in una sedia e cadde a terra. Purtroppo si trovava vicino agli scaffali di vetro. Sentì le schegge di vetro che gli tagliavano la pelle mentre finiva con la testa in mezzo ai libri, e urlò di dolore. Ma la prima cosa a cui pensò fu di tornare a guardare il soffitto, era come ipnotizzato da quella vista. Improvvisamente, l’acqua smise di cadere, tranne in un punto; passarono pochi secondi e in quel punto sembrava che ci fosse una cascata, e Carlo ne osservò la cima. Con orrore, vide che da quel punto stava spuntando qualcosa.

“Luigi!” urlò Andrea. “Andrea – disse Luigi – cosa è successo alla tua faccia?”
Andrea rimase di stucco. Cosa avrebbe dovuto dire lui? Le guance di Luigi erano praticamente scomparse, poteva vedere i denti spuntare dai lati della bocca. La pelle era diventata quasi grigia e aveva perso molti capelli vicino al volto, nonché gli occhi si erano illuminati di rosso e avevano perso l’iride.
“Ma ti sei visto in faccia? La tua è diventata orribile! Come hai fatto a ridurti così?”
“Come? Non ti ricordi che tu mi hai tirato un pugno proprio qui quando ho provato a scappare? – indicò quella che avrebbe dovuto essere la sua guancia. Ma un pugno non riduceva in quel modo un volto. Luigi si mise a ridere – “Invece vedo che a te hanno tirato le orecchie, con quelle punte sembra che tu sia diventato un elfo! Scommetto che anche la tua pelle si è schiarita e i capelli sono diventati lunghi e biondi!”
Andrea si toccò le orecchie. Erano normalissime. La sua pelle aveva ancora lo stesso colore e i capelli erano esattamente come prima. Ma cosa stava succedendo? Andrea gli rispose a tono, anche se non avrebbe voluto farlo in questo modo: “Ma stai zitto! Se ti vedessi in faccia sembra che tu sia un cadavere che si è appena rialzato dalla tomba!” Di sfuggita Andrea riuscì a vedere fuori dall’edificio: non c’era nemmeno una luce. Possibile che il black-out fosse stato totale?
Il pensiero lo distrasse troppo: senza alcun preavviso, Luigi si fiondò su di lui. E non certo in modo amichevole.

“Eccolo! Il pannello centrale è qui!” Annalisa raggiunse Anna: meno male che le ricerche avevano prodotto un risultato. Stranamente non era chiuso a chiave, per cui potevano agire tranquillamente su tutti i comandi. Ma appena aprirono la teca che li conteneva, dovettero tapparsi il naso.
“Bruciati! Tutti bruciati! – disse Annalisa – a quanto pare non possiamo riparare nulla e dovremo stare al buio fino a domani! Oh, quando mai ho accettato di stare qui stanotte…”
“Zitta! Come vedi un filo si è scollegato e quest’altro è rimasto intatto. Forse, mettendo questo filo al posto di quest’altro…”
Appena Anna staccò il filo la scena che comparve davanti agli occhi di Annalisa cambiò completamente: ma era una scena molto familiare.
“Mamma!” Ecco che ricominciava: ma questa volta poteva vedere anche Anna. Anche la sua pelle era diventata verde, ma era rimasta una donna; invece Annalisa – come poteva constatare toccandosi il mento – possedeva ancora una barba. Il filo che Anna aveva staccato era diventato un rametto.

“So dove vi trovate, nascondervi è inutile!” La figura apparsa dove né Veronica né Francesco si aspettavano non ebbe esitazione a prendere una direzione. Francesco se la trovò presto di fronte. Al posto degli occhi possedeva due buchi neri e solchi altrettanto neri ai lati della bocca. La sua mano saettò per prendere il colletto della felpa di Francesco e lo sollevò in aria senza apparente sforzo. “Penso che dovrai subire un piccolo trattamento, ti vedrei molto meglio… da morto”
Francesco deglutì a fatica: vide che l’uomo portava una spada, e cominciò a sudare freddo quando portò la mano all’elsa.
“Oh, questa? – quella specie di uomo rise molto più forte di prima – “No, non è abbastanza… sanguinosa, che ne dici invece di… - il suo sguardo, per quello che poteva capire da quelle sfere nere, si fissò in un punto della stanza. Francesco vide quel punto avvicinarsi sempre di più. Poteva addirittura vedere che quella persona si stava leccando i baffi, pregustando la scena che avrebbe scatenato. Arrivò dove c’era un enorme telo. Francesco non riusciva a capire cosa fosse, ma ci pensò l’altro a farglielo scoprire; levò il telo prima di parlare ancora una volta.
“Che ne dici… di una ghigliottina?”

“La teoria dei multiversi…”
A Marco cominciava a far male la testa con tutte le parole complicate che aveva sentito. Ne aveva abbastanza di questa farsa. Provò a risolvere la questione in modo definitivo.
Voglio ammazzarti. Un pensiero così diretto arrivò subito al punto. Il flusso di parole si interruppe e fu sostituito da una risata. “Se ci riesci… mi stai forse sfidando a duello?”
Esatto. La risata cessò. “Bene, penso allora che non ci sia bisogno di altro tempo.” Pochi secondi dopo sentì qualcosa toccargli la testa. Ehi, liberami prima di iniziare!
“Davvero? Beh, avresti dovuto prima chiedermelo!” Mentre sentiva la solita odiosa risata, Marco avrebbe sospirato, se ne avesse avuto la possibilità. Si preparò a morire.

“Mamma!” Annalisa si voltò verso il bambino. Ora la figura nera alle sue spalle era indefinita come prima ma si trovava a ridosso del bambino. Sentì una mano che si appoggiò sulla sua spalla ma questa volta non la riportò alla realtà. La spada dell’ombra nera cominciò a calare. Annalisa si tolse la mano dalla spalla e corse verso il bambino. In un estremo tentativo di salvarlo, si buttò verso di lui e…

Carlo guardò con orrore la figura che stava spuntando da sopra di lui. Non ci volle molto per riconoscerla. No! No! No! Continuava a ripetersi in testa questa parola. All’inizio pensò di trovarsi in un incubo, ma la sensazione di dolore era troppo reale perché fosse solo un sogno. Riconobbe immediatamente gli occhi che spuntarono dalla superficie increspata: gli occhi appartenevano a Marta, la sua vecchia fidanzata che era morta suicida un paio di anni prima. Non l’aveva mai dimenticata da allora, i suoi sogni erano sempre tormentati dalla sua presenza ma… ora che era davanti a lui, era immobilizzato. Quando uscì allo scoperto anche la bocca, una voce cominciò a sussurrare nella sua testa.
“Vieni con me… puoi cominciare un’altra vita, via di qui, via da tutte le preoccupazioni… soli, io e te… rinuncia alla tua vita qui e vivi con me per l’eternità… - la mano di Marta si tese verso di lui, e Carlo copiò il movimento – prendi la mia mano… e anche il tuo posto accanto a me.” Le dita di entrambi erano vicinissime…

Andrea e Luigi erano avvinghiati l’uno all’altro, stavano lottando con una ferocia inaudita, sembrava che avessero imparato a combattere fin dalla nascita. Entrambi avevano dato e ricevuto colpi abbastanza forti da stendere anche un toro, ma per qualche motivo entrambi rimanevano in piedi. Un piccolo buco nel muro di cemento testimoniava la violenza dello scontro. Da dove proveniva tutta la loro forza era un mistero, ma nessuno dei due poteva chiederselo in quel momento, impegnati com’erano nella lotta. Nessuno dei due sembrava prendere il sopravvento. Ma Andrea fece un passo falso: a un certo punto si trovò con le spalle dal muro e non poté evitare la presa di Luigi, che lo bloccò efficacemente nel punto in cui si trovava.
“E’ finita per te – Andrea sentì un rumore metallico e notò con orrore che Luigi possedeva un pugnale – dunque, vuoi essere ucciso direttamente oppure posso prima tagliare quelle orribili orecchie appuntite che ti ritrovi? In ogni caso, penso che mi prenderò il tuo scalpo, da morto non ti servirà a nulla.”
A nulla servirono gli sforzi di Andrea per liberarsi: era bloccato nel punto in cui si trovava. “Beh, penso che la farò finita subito allora.” Andrea deglutì mentre Luigi sollevava il pugnale, chiuse gli occhi e…

Veronica non poteva fare altro che guardare terrorizzata la scena davanti a lei; voleva scappare ma era sicura che le gambe non l’avrebbero sorretta per molto. Quella strana persona aveva avuto anche il tempo di vestirsi da boia per l’occasione, dopo che Francesco era stato legato e la sua testa infilata e pronta per essere tagliata. “Dopo toccherà anche a te, puoi scappare se vuoi, ma non ti servirà a nulla, ti troverò prima io di qualsiasi altra persona” aveva detto. Non poteva sopportare quella scena: ora era rinchiusa su sé stessa a piangere. Quell’uomo guardava la ghigliottina in adorazione, come se fosse un oggetto sacro, e la accarezzava come se fosse una figlia per lui.
“Non c’è bisogno di perdere altro tempo, avrò tempo per pregustare anche la morte della seconda vittima. Sai – disse rivolgendosi a Veronica – penso che la tua testa mozzata sarà molto carina, la appenderò al muro dopo che l’avrò baciata. Sì. Sì.” Francesco tremava vistosamente, per quanto gli era possibile, sapeva che in quel momento stava per vedere la morte in faccia.
“Muori! Muori! Muori!” urlò il boia. Veronica oltre a distogliere lo sguardo si tappò le orecchie; Francesco sospirò e…

Marco a un certo punto non sentì più la mano sulla testa. Al suo posto, ne sentiva due sui fianchi che lo scuotevano vistosamente. “Marco… Marco!” il muro verde di fronte a lui improvvisamente prese forma. Una forma familiare. Mario e Michele l’avevano trovato, finalmente. “Ma… cosa è successo?” chiese Marco subito dopo che tutti i sensi erano tornati alla normalità.
“Non lo sappiamo nemmeno noi. Ti abbiamo trovato immobile immerso in una strana luce verde, la stessa del laser. Tra l’altro, questa stanza non dovrebbe nemmeno esistere. A quanto pare, sei finito in un posto top-secret: questi sono laser militari, non utilizzabili da molti. Non so cosa hai toccato, ma hai provocato una strana reazione in tutto l’edificio, tutto era al buio e accadevano strane cose. Pensavamo che anche tu fossi intrappolato in quelle strane… cose, ma sembra che la tua sia stata la fonte di tutto. L’importante è che ora tutto sia tornato alla normalità, o almeno, qui è tutto a posto ora.” Questa fu la spiegazione di Mario.
“Quali… cose?” Marco era ancora molto intontito da quella esperienza, il mal di testa era rimasto.
“E’ stato… orribile – Michele prese la parola – ho passato l’equivalente di 10 anni in quella bolla verde, ma qui non è passato nemmeno un secondo. Qui fuori c’erano delle nuvole di gas verde che giravano liberamente per i corridoi. Quando ti abbiamo raggiunto ne sono nate altre due dalla tua e… ci hanno preso.”
“Io invece ho passato 5 anni, ma evidentemente scompaiono quando raggiungi la certezza che in realtà sono delle illusioni. Se non avessi spento il laser, sarebbe potuto accadere di tutto.”
Entrambi erano arrossiti. Non volle indagare su quello che avevano passato in quegli anni. “Ora andiamo a ritrovare gli altri”
“Va bene, ma dovresti raccontarci cosa hai fatto” rispose Mario.

Veronica sentì una mano prenderle la testa. Era arrivata la sua ora, a quanto pareva. Erano passati 10 minuti da quando aveva visto per l’ultima volta Francesco, e non voleva sapere cosa quell’uomo aveva fatto al suo corpo. Aprì gli occhi e, con grande sorpresa, si ritrovò davanti Francesco. Senza dire una parola, Veronica gli saltò al collo, ed entrambi crollarono a terra, evidentemente non si era ancora ripresa da prima. “Pensavo che fossi morto – disse Veronica – come hai fatto a sopravvivere, e soprattutto, dove è finito… lui?”
“Semplice, è scomparso nel nulla dopo che mi ha detto di morire. Senza nemmeno un rumore o una nuvola di fumo. Se non ti fossi tappata occhi e orecchie, mi sarei liberato anche prima. La ghigliottina era finta, ma quelle corde erano fin troppo reali. Però mi domando come sia potuto accadere tutto que…”
Un bacio dissolse tutti i pensieri.

“Ahia!” urlò Andrea. Sentì un pugno nello stomaco, ma in realtà era sollevato, poco prima qualcuno stava per ucciderlo. Aprì gli occhi e con grande sorpresa, ritrovò Luigi come al solito. La sua faccia era tornata normale.
Entrambi si guardarono per alcuni secondi, finché Andrea tirò un calcio negli stinchi a Luigi per staccarselo di dosso. “Ma… che è successo?” Chiese Luigi massaggiandosi la gamba colpita.
“A quanto pare eri in un altro mondo, mi stavi ammazzando e nemmeno te lo ricordi” rispose Andrea.
Luigi lo guardò perplesso: “A dir la verità potrei dirti la stessa cosa, prima che si riaccendessero le luci mi stavi per baciare.” Andrea si irrigidì immediatamente. Avevano due ricordi così diversi dell’accaduto? Ma l’ultima frase che Luigi gli disse gli aveva detto aveva fatto attorcigliare il suo stomaco. Meno male che non aveva mangiato.
“Te lo sarai sicuramente immaginato”
“In effetti mi era sembrato strano che improvvisamente avessi cambiato personalità… ma io perché volevo ucciderti?”
“Sembravi diventato pazzo.”
“Potrei dirti la stessa cosa.”
“Provamelo!”
“E tu potresti provare quello che dici?”
E andarono avanti così per molti minuti.

Annalisa si trovò senza l’aria sotto i piedi, ma ebbe la prontezza di riflessi necessaria per non sbattere la testa contro il muro. Le mani riuscirono ad attutire il colpo.
“Anna! - gridò Anna – ma cosa ti salta in mente! Sei proprio impazzita! Per fortuna che c’era un muro e non una finestra! Ora capisco cosa volevi fare prima!”
“Io… non so, mi sarò immaginata… ma c’era un bambino che stava venendo ucciso…proprio qui dove sono io adesso.” Rispose Annalisa.
“A quanto pare ti sei proprio fusa il cervello! Alzati, sembra che la corrente sia tornata. Nemmeno io pensavo di fare tutto questo in così poco tempo!” Disse Anna tutta orgogliosa di sé, mentre osservava Annalisa come se fosse una pazza.
Annalisa ricambiò lo sguardo con uno simile.

Alla fine tutti si rincontrarono davanti alla biblioteca, e si misero a parlare di quello che era appena successo. Tutto era stato molto strano, ma decisero per prima cosa di tornare a dormire, fuori era ancora notte. Tuttavia le porte erano ancora bloccate come avrebbero dovuto essere.
“Carlo aprici! Siamo tornati tutti sani e salvi, si sono riaccese le luci - urlò Andrea, ma non ottenne risposta – Cosa gli è successo? – urlò ancora più forte tirando un calcio alla porta – avanti, dobbiamo sfondarla!”

La porta era molto più resistente di quel che pensarono, quindi dovettero uscire per chiedere aiuto, ma questo significava abbandonare l’occupazione. Quando alla fine entrarono in quella stanza - e nessuno sapeva come fosse stato possibile – Carlo non c’era. Non l’avrebbero mai più ritrovato.

You can never know everything,
and part of what you know is always wrong.
Perhaps even the most important part.
A portion of wisdom lies in knowing that.
A portion of courage lies in going on anyways.


Email Scheda Utente
Post: 1.245
Età: 36
Sesso: Femminile
OFFLINE
14/01/2009 10:29
 
Quota

AAAKK - Un lungo viaggio

Stamattina ho visto un robot. Non so come faccio ad esserne sicuro ma sono sicuro e questo basta.
Era in metro insieme a me, non nel senso che eravamo insieme, ma facevamo lo stesso tragitto; non tutto ma un bel pezzo.
Secondo i miei calcoli, approssimando veramente poco grazie ad un’esperienza maturata in molti anni di servizio, sono sicuro che fosse un robot.
A dirla tutta sembrava una “lei”; era molto tranquilla in apparenza, anche se l’apparenza spesso inganna, e non aveva capelli ma una fascia sulla testa e le sopracciglia disegnate.
Forse andava a lavorare.
C’era tanta gente nel vagone: forse dei robot, forse altro, ma questo non è importante. L’importante è che io non andavo al lavoro.
Non sarebbe una notizia fondamentale questa se a raccontarla fosse uno qualunque, ma lo diventa visto che a raccontarla sono io.
In tanti anni di onorata carriera ho sempre adempiuto al mio dovere, e se la memoria non m’inganna, non sono mai stato assente. Il che non è proprio sicuro giacchè la memoria ogni tanto qualche scherzo me lo fa.
Faccio ancora fatica ad ammetterlo e l’ho sempre fatta, ma il tempo è volato e io non ho potuto fare a meno di subirne le conseguenze.
Non vado a lavorare perché non è più tempo per me.
Dicono che mi sono fatto vecchio, che non sono più utile alla società, che sono un pezzo del secolo scorso, un nonno. Ma io non lo ammetterò mai, sia chiaro; finchè avrò forza non sarò mai vecchio.
Lei invece sembra così tranquilla, energica, che quasi mi fa invidia. Eccola lì con le sue scarpette da ginnastica e le cuffie alle orecchie, un mare di emozioni in piena.
Ma che cosa faranno mai queste emozioni… tutti emotivi, tutti pieni di sentimenti… ai miei tempi non c’era bisogno dei sentimenti; bastava fare quello che c’era da fare e passava la paura. Che risate la paura… io non so cosa sia la paura. Ma poi paura di che? Non è molto meglio vivere senza paura?
La gente dentro al vagone va a farsi gli affari propri, sprofonda il naso tra le pagine del giornale, silenziosa, sonnolente, viva… Bella la vita, eh? Ragazza robot? Bella la tua vita… In mezzo ai tuoi simili, nella gioventù, nel dolore… Ti piace? Ti trovi mai a piangere di dolore? Non lo provi? E che provi?
Sembra di sentire parlare mio padre…
Sto qui, seduto, curioso e carico di un sentimento impotente che se ricordassi come si chiama, io… io… Altro che vecchio! Il Vecchio ha stretto la mano al vecchio secolo e tra vecchi… ve l’ho servito bello e pronto, cotto a puntino per essere gustato fino all’ultimo attimo.
E tutto questo per sentirmi così… vecchio.
La metro cammina, fa le sue belle fermate, gente che scende, che sale e lei, ragazza robot, mi sta seduta davanti con la sua aria apparentemente tranquilla che gioca col labbro inferiore… no, non è una cicatrice, è una ragazza robot, non so a cosa serve quel taglio.
Non l’ho mai imparato, non lo ricordo, non me ne frega niente.
Non lo ricordo! Eppure lo sapevo!
Nessuno guarda nessun altro in faccia due volte: è la regola della metro.
Ognuno sale in metro per andare chissà dove ed è come fosse solo.
Io sono seduto già da qualche fermata e non accenno a violare questa regola se non con un’eccezione: la ragazza robot.
Sta ancora lì e guarda a terra, catturata da chissà quale diavoleria futuristica. Mi sento un po’ razzista.
Una volta eravamo tutti diversi ma fondamentalmente tutti uguali: era una sorta di squadra nel passato… mi sono morso la lingua accidenti a me! Perché penso queste cose! Prima mi lamento se mi considerano vecchio e poi mi relego a pezzo di antiquariato!
Sembra di sentire mio padre!

Sto in questo vagone puzzolente da un po’ e quello non mi ha tolto gli occhi di dosso un momento.
Mi sento molto a disagio così squadrata continuamente dalla testa ai piedi.
Non ha mai visto una in chemio? Mica l’ho voluto io! Mica l’ho voluti perdere io tutti i capelli! Non è una moda! E la mia fottuta fermata non arriva mai.
Almeno sotto la metro ognuno si fa gli affari suoi; tutti affamati di notizie da quando i giornali sono ovunque. Non ho i loro occhietti curiosi addosso ogni momento.
Quanto odio sentire quegli sguardi pietosi chiedersi quale Dio avrebbe mai punito una ragazza così giovane. Ma che punizione! È la vita! E poteva capitare a tutti.
E’ capitato a me, beh, pazienza, ce ne faremo tutti una ragione.
E quel tipo non mi toglie i suoi occhi di dosso.
È strano, non saprei dargli un’età, ma saprei cosa dirgli! Oh se lo saprei!
Mi sto mordendo il labbro fino a farmi male, a sentire il segno dei vecchi punti dolermi come fossero ancora freschi.
Lo faccio ogni volta che sono innervosita da qualcosa. Vado all’ospedale. Forse riuscirò a raccontarlo un giorno.
La medicina fa progressi. Ora posso solo sperare.
Vorrei un figlio un giorno.
Vorrei dimenticare tutto questo e farmi accarezzare i capelli. Vorrei, vorrei, vorrei…
Intanto vorrei uscirne in piedi, poi si vedrà.
Maledetta questa metro; sembra che ogni due fermate torni indietro di una…
Perché non c’è un minimo di rispetto in quell’uomo? Voglio solo andare a farmi riempire di radiazioni e sperare di riprendere la vita da dove l’ho lasciata.
Chiudo gli occhi, sento la musica, volo col pensiero dove gli occhi di quell’uomo non possono trovarmi, in ogni più nascosta fantasia, dove nessun uomo qua dentro può sperare di trovarmi.
Incontro qualcuno nei miei ricordi; qualcuno che ricorda ancora quanto erano lunghi i miei capelli.

Ciao ragazza robot, ancora su questo vagone? Nooo, non ci sei già da un po’! Ti vedo ancora seduta davanti a me ma chissà dove ti hanno portato i tuoi circuiti… chissà cosa stai provando… Darei qualunque cosa per saperlo. Qualunque cosa. Peccato che non ho nulla.
Forse solo i ricordi, qualche frammento del pezzo di vita che mi appartiene che si chiama passato.
Le fermate cambiano e io mi sto quasi convincendo che essere vecchi è solo un altro punto di vista. Coi tuoi poteri vorrei che ti alzassi, mi mettessi la mano in testa e mi facessi provare quello che provi tu.
Per me le emozioni sono come i fantasmi: dicono che esistono, c’è chi ci interagisce ma c’è anche chi non riesce proprio a comprenderli.
Non sono reali, non per me.
Sono vecchio, neanche questo riesco a comprendere.
Invece tu quanti anni hai, ragazza robot? Non lo so, non ti so dare un’età. Per quanto mi riguarda potresti essere anche più vecchia di me. Chissà quante cose ricordi…
Sicuramente più di me che ho la memoria che comincia a dare segni di cedimento.
Eppure una volta andava forte! Era la mia specialità.
La memoria serviva a dare la speranza. Era il mio lavoro. Davo la speranza a chi era lì lì per perderla.

Mentre pensavo se era il caso di vivere ogni giorno come fosse l’ultimo, sentivo lo sguardo di lui addosso.
Era fastidioso interrompere pensieri del calibro di speranza o non speranza a causa di uno sguardo, ma era così.
Il treno viaggiava con la calma dell’impazzita routine che accompagnava la vita di ogni giorno, ma davanti la realtà dei fatti, la mia realtà, la vita di ogni giorno aveva un significato diverso. Una fascia, un cappello, una siringa, ora non avevano più lo stesso peso.
Rivoglio indietro la mia vita, proprio com’era prima. E non c’è più tristezza ne delusione perché la speranza, o meglio, la voglia di sperare ancora danno valenza alla vita stessa.
Ogni tanto mi trovo a soffrire più per le persone intorno a me che per me stessa.
Sento tanti casi di errori medici fatali e tutta la gente lì a puntare il dito contro… ma col cavolo! Con me non ha sbagliato nessuno! E rido al pensiero di essere ancora viva!
Per quanto non lo so, ma tanto vale godersela tutta!
Tu chi sei? Mi stai ancora fissando.
Non hai mai visto una come me? Forse destinata ad una fine precoce…
Chissà cosa vedi che desta così tanto la tua attenzione… perché mi fissi, chi sei?
Non so neanche io cosa vedo in te, sembri assente, dove stai andando, che cazzo hai da guardare?
Sei vivo?

Ora non penso più a lei ma i miei occhi sono fissi.
Ragazza robot, tu la speranza ce l’hai ancora. Io forse non ce l’ho più.
L’ho portata in giro così tanto tempo, ne ho regalata così tanta che ora non ce ne ho più per me.
La memoria mi fa brutti scherzi, ma questo me lo ricordo bene. Era la mia specialità.
Forse hai vissuto più di me. Fino a ieri o meglio, un po’ più di ieri, sapevo far sorridere. Ora non so più come si fa. La memoria fa brutti scherzi.
Ho preso tante volte la metro, andavo in giro, facevo il mio lavoro, portavo la speranza. Non ho visto guerre, non ho visto niente.
Eravamo tutti simili. Ognuno faceva il suo. Ognuno si occupava del suo piccolo, aveva l’occupazione che lo rendeva vivo, o quasi.
Io portavo la speranza.
La società era perfetta proprio perché ognuno faceva il suo. Non c’era spazio per le emozioni. Non ce n’era il bisogno. Però tutto era perfetto; una macchina bel oleata. Perfetta.
Ma questo forse tu lo sai già, ragazza robot.
Sai che io porto la speranza? Tu lo sai cosa è la speranza?
In ogni caso non è un problema. Io porto la speranza.
Ora tutto ha ricominciato ad andare a tempo. Il treno corre e tra un po’ sarò arrivato a destinazione.
Sono troppo vecchio per lavorare quindi andrò dove non mi troverà più nessuno. Meritato riposo. È la cosa più difficile portare in giro la speranza.
Non so cosa devo fare oggi eppure lo sapevo… la memoria si sa,….
Non c’è spazio per le emozioni.

Basta. È arrivata la mia fermata. Lo strazio è finito. Proprio ora che non mi guardava più… era da tanto che nessuno mi fissava così… quasi mi dispiace… ma presto tornerò ad essere me stessa e non avrò più paura.
Avrò quello che per qualche tempo ho pensato di non poter avere più. Ne sono sicura.
Addio uomo che non ha mai smesso di fissarmi mentre scandagliava le mie emozioni. Non ti rivedrò mai più. La mia vita andrà avanti senza di te, senza il tuo sguardo sulla mia pelle. Non saprò mai cosa pensavi, mi hai guardata fino all’imbarazzo, ma forse non sai la cosa più importante.
Come hai fatto? Quando sono salita sulla metro avevo paura, lo ammetto, una grande paura.
Ora sto scendendo e ho qualcosa di più che non so come, mi hai infuso proprio tu: la speranza. Non ho più paura. Ho in me la speranza di tornare ad essere me stessa e non c’è fascia, cappello, siringa o cura che mi toglierà la voglia di vivere.
Non avrei mai pensato di dirlo.
Grazie, chiunque tu sia.

Tra poco arriverò alla mia fermata. Non c’è più nessuno davanti a me. Chissa dove stavi andando, ragazza robot. Sono sicuro che non ti rivedrò più. La tecnologia è andata avanti, ma io sono diventato vecchio. Non volevo che tu scendessi dalla metro perché non so come tu abbia fatto, ma mi hai ricordato cose che la memoria aveva offuscato in me.
Ora ricordo tutto.
Sono diventato troppo vecchio, la mia memoria spesso va in tilt. Non è più tempo per me.
Devo essere riciclato. So cosa mi è mancato in tutta la mia esistenza e ora l’ho capito, forse proprio grazie a te. Eravamo una squadra nel passato; ognuno faceva il suo e rendevamo questo fragile mondo umano un po’ più umano. Proprio noi che di umano non avevamo niente. Solo un mucchio di rotelle con una fragile memoria e un grande potere: ricordare ad ogni umano che possedeva delle emozioni che doveva accudire. Noi non le avevamo e proprio per questo riuscivamo nel nostro dovere. Bastavano pochi minuti per infonderle. E poi erano per sempre. Ora lo stanno capendo tutti.
Il mio compito qui è finito. Non servo più. Sono diventato vecchio. La società non ha più bisogno di me, di questo vecchio uomo robot.
Nessuno si ricorderà di me. Ho paura. Finisce qua, mentre negli ultimi momenti della mia vita ho imparato a provare un’emozione.
Addio ragazza; ho lasciato a te la cosa più importante che avevo. La speranza.


You can never know everything,
and part of what you know is always wrong.
Perhaps even the most important part.
A portion of wisdom lies in knowing that.
A portion of courage lies in going on anyways.


Email Scheda Utente
Post: 124
Età: 36
Sesso: Maschile
OFFLINE
26/01/2009 17:40
 
Quota

Parte I
Demandred - L'Oracolo

Colle Del Cervo era un paese con meno di tremila abitanti arroccato sui Colli Albani. Abitato fin dal nono secolo, fu un piccolo feudo della famiglia dei Frangipane prima, dei Savelli poi, ed infine dei Farnese; il susseguirsi di tante famiglie della cosiddetta "aristocrazia nera" non aveva però impedito che oggi il borgo risultasse tanto piccolo ed anonimo da non essere nemmeno segnato nella maggior parte delle mappe.
Osservando dalla piazza del paese il maschio centrale del vecchio castello medioevale, Andrea Di Stefano sospirò: lei era vissuta per ventitrè anni in quell'angolo dimenticato d'Italia, costretta ad andare a studiare a Roma fin dalle scuole Superiori, e per questo e mille altri motivi lo odiava; la vita in un paese era piatta e, talvolta, rivoltante, dato che lì c'erano pochissimi locali, ancor meno divertimento e, quel ch'era peggio, tutti si conoscevano tra di loro. Lei stessa era una vittima di quel tipo di vita, a partire dal suo nome: Andrea, ovvero "uomo forte", era un nome maledettamente maschile, ma per distinguerla in quel paese composto da pochi, diffusissimi cognomi, i suoi genitori avevano ben pensato di seguire la moda estera ed utilizzarlo per la loro figlia.
Andrea distolse lo sguardo dal castello, aggiustandosi nervosamente una ciocca dei suoi neri capelli mossi che le pendeva dalla fronte, ricacciandola entro la retina di finte perle che le raccoglieva la chioma: un ornamento assurdo, ma in quell'ultimo scorcio d'estate in paese erano soliti esibirsi in una festa in costume, e dato che Enrico, il suo ragazzo, era tra i promotori della manifestazione, quest'anno c'era stata incastrata anche lei. Irritata anche con lo stupido uomo, un maledetto nostalgico d'un passato che non sarebbe più tornato - anche se non sarebbe dovuta essere lei a dirlo, dato che all'Università studiava Storia Medioevale -, scoccò un'occhiata al vestito che aveva addosso: se i suoi occhi avessero potuto incendiare, quella lunga veste color bronzo, ricamata da motivi di rami e foglie color oro, si sarebbe incenerita all'istante.
<< Tieni ancora il broncio nonostante la manifestazione sia ormai finita, Rea? Sinceramente, non me lo sarei mai aspettato da te. >>
Andrea sussultò istintivamente, ma un attimo dopo guardò, rossa in faccia - era sicura di esserlo - la proprietaria di quella voce dallo strano accento: Jennifer Berger era una ragazza afroamericana pienotta, i capelli neri raccolti in treccine imperlinate ed un sorriso perennemente stampato sul volto. Giunta da Saint Paul, negli Stati Uniti, un anno addietro per studiare in Italia l'arte Romana, aveva preso alloggio a Colle Del Cervo per evitare i prezzi alti degli appartamenti di Roma, e per tutto il periodo era stata la principale attrazione del paese. Oltre ad essere diventata una sua carissima amica, ovviamente. Andrea si rammaricava che sarebbe tornata a Saint Paul il mese successivo, e la consolava poco il sapere il suo indirizzo laggiù.
<< Eppure dovresti essere la prima ad essere felice d'infilarti in quegli abiti. >> Proseguì, imperterrita, la statunitense. << Perchè, poi, hai scelto di studiare Storia Medioevale, Rea? Fino a quando Rico non ci ha tirato in questa manifestazione, credevo che tutto ciò che riguarda il medioevo fosse un qualcosa di sacro, per te. >>
<< A me interessa la storia medioevale, Jenny, è vero, ma nella storia accade maledettamente qualcosa. >> Le rispose prontamente Andrea, senza ormai far caso al nomignolo che la ragazza le affibbiava; per Jennifer era una cosa inconcepibile non chiamare gli amici per soprannomi, ed a lei nemmeno dispiaceva il suo: meglio essere chiamata come un’antica divinità Greca, piuttosto che “uomo forte”. << Ma in questo angolo di mondo qui, forse è già tanto se c'è mai stata un'impennata del prezzo della lana in mille anni, e questo costituirebbe il dato più interessante maledettamente ricavabile! >> Concluse, dunque, con più d'una punta di veleno tra le parole; fin da bambina, complici le storie del ciclo arturiano, s'era appassionata alla storia medioevale, ed era stata un'enorme delusione constatare la piattezza totale della storia del suo paese natale, un'anonima roccaforte perennemente fuori dalle guerre intestine romane, un maledetto angolo di mondo i cui i vecchi aristocratici si rifugiavano per passare piacevolmente l'estate.
Guardando la giovane statunitense - s'era voluta vestire anche lei, nonostante non si fosse mai vista una nobildonna afroamericana a Colle del Cervo, ed il suo abito era verde scuro con radi motivi floreali - Andrea concluse il suo sfogo con una smorfia, agitando la mano per accantonare l'argomento, e riprese a parlare con più calma.
<< Lasciamo perdere, per favore, Jenny. Piuttosto, hai chiamato gli altri? >>
Jennifer aveva una capacità impressionante di stringere amicizie, ed era diventata in poco tempo l'anima degli incontri ai pochi bar del paese: qualunque rimpatriata passava per il suo telefono cellulare; Andrea, dal canto suo, voleva prendersi una sbronza tale da dimenticare cos'era stata costretta ad indossare. A quella domanda, comunque, Jennifer allargò ancora di più il suo smagliante sorriso.
<< Non ce n'è bisogno, Rea: dieci minuti fa Rico mi ha avvicinata, dicendomi che aveva già organizzato una serata di bevute con gli altri ragazzi del paese. E' palese che abbia capito che a te non sia affatto piaciuto l'essere stata coinvolta nella manifestazione; non vorrai perdere l'occasione per riconciliarti con lui, vero, Rea? >> sorridendo, la ragazza pienotta prese Andrea sottobraccio; era più bassa di lei di metà testa, e la giovane aveva a malapena un'altezza media. << Su, seguimi: l'appuntamento è a Le Oche Capitoline. >>
Letteralmente trascinata via dall'amica, Andrea lasciò insieme a lei Piazza del Municipio, il centro del paese, per inserirsi in quell'intrico di strade tipiche di un borgo medioevale; dopo circa dieci minuti di cammino, le due entrarono in un rustico locale sulla cui vetrata erano ritratte delle oche starnazzanti. Lì dentro, in fila lungo il bancone, Andrea trovò il gruppo di amici che era solita frequentare in paese: Maicol, un ragazzo smilzo dai castani capelli arruffati, i cui genitori avevano avuto idee onomastiche peggiori di quelle dei suoi; Francesco, alto, biondo e con gli occhiali, sempre perso nei suoi pensieri; Serena, sua sorella, anche lei bionda, i capelli lisci che le superavano le spalle, una ragazza dal carattere focoso; Elisa, figlia d'un muratore, dai cortissimi capelli neri e con una parlata tale da far arrossire suo padre, nonostante fosse una delle persone più colte che Andrea conoscesse; Giovanna, dai ricci capelli castani e con degli occhiali, come al solito assorta nel leggersi un qualche libro; Dario, i capelli neri tirati su dal gel, un tipo sempre attivo, tanto che ora stava giocherellando con uno stuzzicadenti, probabilmente per ammazzare il tempo; infine, sulla sedia più lontana da lei, Enrico, i capelli castani tagliati a spazzola e dei bellissimi occhi verdi, alto e robusto. In genere, gli avrebbe sorriso come una sciocca, ma quella sera gli scoccò invece un'occhiata furente: non avrebbe dimenticato facilmente il modo in cui l'aveva praticamente spinta a forza a partecipare alla festa in costume.
<< ...Finalmente! E' un fottuto quarto d'ora che v'aspettiamo, voi due!! >> Sbottò Elisa, vedendole entrare. << Hai perso tempo a bestemmiare gli schifosissimi santi, Andrea? Giuro, diventerai una storica capace di far vomitare il pranzo di Natale in estate ai sassi, tu. >>
All'accenno di Elisa ai santi Don Alessandro, il sessantenne parroco del paese, seduto con degli amici al tavolo dietro di loro, sussultò visibilmente; Andrea sorrise: era un bene che Elisa si proclamasse atea, in caso contrario la Curia avrebbe voluto la sua pelle.
<< Non divorarla così, Elisa. >> S’intromise pigramente Francesco, come al solito apparentemente assonnato. << Ci conosciamo fin da bambini, e sappiamo tutti il perché di questo suo atteggiamento; in ogni caso, sono sicuro che la cosa non pregiudicherà il suo futuro. >>
Fuori dal mondo, ma sempre gentile con tutti: Andrea gratificò Francesco con un sorriso, per questo; forse incoraggiato dal suo umore apparentemente calmo, Enrico si sporse dal bancone.
<< Andrea, mi dispiace per come l’hai presa…voglio dire, speravo che ti saresti divertita. >>
<< Intelligente quanto un asino bastonato, come sempre. >> S’inserì acida Elisa. << Sei una schifosa fogna di ragazzo, se speravi che lei dimenticasse che si trattava d’una rievocazione del passato di questo buco puzzolente di posto. O mi verrai a dire che non sapevi che Rea odia tutto ciò che ha a che fare con questo Colle Del… >>
<< Grazie mille, Lisa. >> La interruppe prontamente Jennifer: tutti loro conoscevano i vizi di linguaggio di Elisa ma, evidentemente, temeva che i vecchi ai tavoli avrebbero scatenato un putiferio per quelli troppo pesanti. E non c’era dubbio che Elisa non stesse per dire “Colle Del Cervo”. << Rea, che ne diresti se ci sedessimo tra Lisa e Gianna? >>
<< Ottima idea, Jenny. >> Rispose Andrea; con Enrico avrebbe fatto i conti più tardi. Giovanna quasi sussultò, quando le si avvicinarono: in genere era sveglia, ma il leggere la estraniava dal mondo esterno peggio di Francesco; comunque fosse, le due ragazze si sedettero ai lati delle amiche.
<< Andrea a parte, >> prese inopportunatamente a dire Maicol << è stato un magnifico revival, Enrico, forse il migliore degli ultimi anni: complimenti, davvero. >>
Andrea cercò di fulminare lo screanzato con gli occhi, ma finì con l’osservare i suoi vestiti: un abito da signorotto medioevale, una lunga veste rossa bordata d’oro con bottoni del medesimo colore; presa da un improvviso sospetto, guardò gli altri – prima era stata troppo presa da Enrico per farci caso -, e vide i suoi dubbi confermati: Elisa e Giovanna erano entrambe vestite in lunghi abiti da dame medioevali, la prima con un vestito blu con ricami d’oro, la seconda con uno nero dai ricami d’argento. Gli altri, Enrico compreso, erano vestiti normalmente, ma quei tre bastavano per capire cosa ci fosse sotto: a parte lei, che era rimasta come una scema a farsi verde di bile all’ombra del castello, gli altri avevano avuto tutto il tempo per cambiarsi d’abito, ma non l’avevano fatto; indignata, fissò furiosa Jennifer, che le sorrise di rimando, mormorando: << Certe volte, per superare un blocco psicologico bisogna portare il paziente ad affrontarlo frontalmente, non credi, Rea? >>
Andrea non rispose: si sentiva troppo abbattuta per fare qualunque cosa; in quel momento, quasi a proposito, il proprietario de Le Oche Capitoline, il vecchio Mario, un cinquantenne calvo con i baffi brizzolati, s’avvicinò a loro due, le uniche del gruppo a non aver ancora ordinato qualcosa.
<< Prendete qualcosa, ragazze? >>
Andrea non si lasciò sfuggire l’occasione: << Cuba libre, grazie. Due bottiglie. >>
Il vecchio sollevò un sopracciglio, ma non disse nulla: un cliente era un cliente, per lui; ottenuta quindi la sua bevanda alcolica preferita, Andrea se ne versò di fila due, tre, bicchieri, svuotò presto la prima bottiglia ed iniziò la seconda: l’aveva detto, dopotutto, di volersi sbronzare, e più che mai ne era decisa dopo la “terapia” di Jennifer; al diavolo la “terapia” di Jennifer, piuttosto.
Non si ricordava bene quando accadde, ma mentre svuotava le seconda bottiglia fu presa dal sonno e s’accucciò sul bancone, la faccia sulle braccia, addormentandosi in pochi attimi.

********************


Quando riprese i sensi, Andrea si sentì la testa pesante, affondata su un morbido cuscino; nel risvegliarsi, fu sempre più conscia d’un forte dolore alla nuca, come se fosse stata colpita di recente da qualcosa. Strano, si disse, non si ricordava affatto d’aver subito qualcosa del genere.
Con un certo sforzo, s’impose d’aprire gli occhi, certa di vedere così le pareti bianche della sua camera: se aveva la testa poggiata su un cuscino, voleva dire che si trovava nel suo letto, tanto più che era certa d’essere supina; invece, nell’aprirsi, i suoi occhi colsero, oltre alla luce mattutina, alcune sagome umane indistinte, sagome che subito s’agitarono e presero a parlare.
<< S’è svegliata. >> Constatò una voce profonda, sicuramente d’un uomo.
<< Buon segno. >> Proseguì un’altra, rauca, forse d’un vecchio. << Era davvero da tanto che non accennava a riprendere i sensi. Confesso d’essere sollevato. >>
<< Sì, un’ottima cosa. >> S’intromise una calma voce femminile, sicuramente una giovane donna. << Tacciamo, però, ora: la sua testa certo non gradirà il brusio di troppe voci. >>
Andrea cercò di drizzarsi sulla schiena, disorientata: non riconosceva quelle voci, ed era anzi certa di non averle mai udite in vita sua; imponendosi di focalizzare la scena che le si parava davanti, qualunque fosse, si guardò intorno. Non era in camera sua, questo era certo: era adagiata su un letto a baldacchino dalle tende e lenzuola rosse, all’interno d’una stanza piuttosto ampia, dalle pareti di pietra; la finestra spalancata di fronte a lei indicava un cielo terso ed estivo, e sotto di essa c’era un caminetto spento, attorno al quale, sedute su delle poltrone rosse, sedevano tre persone.
Doveva essere all’interno del castello, si disse osservandole, non c’era altra spiegazione: lì seduti stavano, infatti, un uomo di mezza età, capelli e barba brizzolati, vestito di cotta di maglia e con una sopraveste di lana rossa avente ricamata sopra una barca color bianco ed oro, un vecchio rinsecchito, calvo e dalla candida barba bianca, vestito con un lungo abito di lana grigia, ed una donna bionda di circa vent’anni avvolta in un lungo abito azzurro ricamato di bianco, del merletto lungo i polsi; dati i vestiti, concluse Andrea, dovevano essere attori del revival del paese, che forse l’avevano soccorsa dopo che era stata accidentalmente colpita da qualcosa. Eppure lei era certa d’essersi addormentata ubriaca al bar.
A spezzare il filo dei suoi pensieri fu il vecchio, che s’alzò e si diresse verso di lei quasi timidamente.
<< Chiedo perdono, mia signora. >> Le disse, la stessa voce rauca di prima, forse addirittura servile. << Dopo che sei stata colpita da una delle pietre scagliate contro la città dalle catapulte degli assedianti, dietro richiesta del capitano Minthean sei stata trasportata qui, al castello; il capitano sapeva che io ero già stato chiamato qui per il principe, così ho potuto occuparmi anche di te. >>
<< Avendo visto i tuoi abiti, ho concluso che tu facessi parte del seguito del principe, mia signora. >> Intervenne allora il soldato brizzolato dalla sua poltrona. << Qui a palazzo, però, ho potuto constatare che nessuno ti conosca; la principessa Elyanirith ha quindi deciso d’ospitati finchè non ci fossimo potuti accertare della tua identità. >>
A queste parole, la giovane annuì graziosamente, i capelli lisci raccolti a coda di cavallo da un fermaglio d’argento a forma di farfalla, oltre il quale diventavano mossi. Andrea decise che si trattava della principessa in questione.
<< Quindi, non per volertene male, ma ti pregheremmo di farci conoscere il tuo nome, mia signora. >> Concluse timidamente il vecchio.
Andrea non volle ragionare molto su quello strano quadro, data la pesantezza che sentiva in testa: capitani? Principi e principesse? Assedi? Od era uno scherzo, o…come aveva detto, non voleva pensarci sopra, non ancora; le parve però educato presentarsi.
<< Sì, io…il mio nome è Andrea Di Stefano, e…>>
<< Antayaelin. >> Mormorò la donna che Andrea supponeva fosse Elyanirith, il tono a metà tra lo stupito e l’interessato.
<< Questo spiega molte cose. >> Tubò felice il vecchio, sorridendo apertamente.
<< A partire dalle ottime vesti che indossa. >> Puntualizzò il soldato – Minthean? -, l’unico che sembrava rimasto poco colpito dalla notizia.
<< Assomiglia al ritratto di mia nonna che c’è ad Anor Dion, ora che la osservo bene: lei era di Gorya. >> Aggiunse la donna, come se la cosa fosse indicativa. << A questo punto, immagino che non ci siano più dubbi sulla sua identità; anzi, suppongo di dover salutare mia sorella come si conviene. >> Concluse, sorridente e raggiante.
Andrea non capì: che cosa s’erano messi a vociare, e cos’era quel “antayaelin”? Lei aveva detto solo…Nye, ai…Emoreth Antayaelin aya semne. Sì, io…il mio nome è Donna Forte Figlia Dell’Incoronato, ecco cosa aveva detto!!
Sbattè le palpebre, estremamente turbata: cos’era quella lingua con la quale aveva appena risposto, una lingua che quei tre avevano pure compreso? Anzi, s’accorse, quei tre avevano sempre parlato in quell’idoma, fin da quando lei s’era risvegliata, e non se n’era nemmeno accorta fino ad ora!!
S’afferrò la mani, intrecciandole sul grembo. Non era di certo italiano – era palese -, né una qualunque lingua di questo mondo, almeno non di quelle che aveva studiato. Eppure, sapeva parlarlo.
<< …Sorella? Emoreth? >> Andrea, pur senza volerlo, sussultò nuovamente all’insinuarsi di quella voce gentile e preoccupata, la voce della principessa., la donna che credeva d’essere sua sorella. Sorellastra, in verità: “antayaelin” era il nome che ricevevano i figli naturali del re di Damer, e quella Elyanirith era sicuramente una figlia legittima. Poi, le era chiaro che quel “Donna Forte Figlia dell’Incoronato” fosse semplicemente la trasposizione del suo nome nel suo significato originale, a parte una licenza: “Andrea” significava “Uomo Forte”, mentre la trasposizione che aveva utilizzato, “Emoreth”, significava “Donna Forte”. Un cambiamento che, ad essere sincera, le faceva piacere: aveva sempre odiato quel significato del suo nome.
Andrea fu molto colpita da quelle informazioni, tanto da non accorgersi per qualche attimo che erano giunte dal nulla; dopodiché, resasi finalmente conto del fatto, sussultò vistosamente: che cosa significava tutto ciò?!?
<< Mi sembri tesa. Ed assente. >> Proseguì la donna – Elyanirith -, il volto evidentemente preoccupato: era chiaro che il turbamento di Andrea le fosse ben visibile, benché ovviamente la principessa non ne indovinasse il vero motivo. << Ti senti poco bene? Il maestro Emadnin può nuovamente controllare la tua nuca, se ti fa ancora male: è il miglior insegnante di medicina della scuola del Diridenne, e ti assicuro che sa il fatto suo. >>
A quest’affermazione, il vecchio sorrise timidamente. Quindi era un insegnante della scuola locale – naturale che lo fosse: gli unici medici di Damer erano insegnanti, i soli di cui la gente si fidasse, studiosi che finanziavano i loro studi e si guadagnavano da vivere tramite l’insegnamento ed i servizi ai privati -. Un’altra informazione intrusiva. Andrea avrebbe voluto urlare: quello non era affatto il suo mondo!! Sperando che si trattasse d’un sogno, riuscì in qualche modo a reagire: sentiva istintivamente che sarebbe stato sicuramente controproducente tacere oltre, ovunque fosse finita.
<< Io…Vostra Altezza non è bene che si disturbi per una come me. Stavo solo pensando a quanto disturbo v’ho arrecato. >>
<< Sciocchezze. >> Replicò la donna, sorridente, alzandosi. << Piuttosto, Emoreth, chiamami pure Elyanirith: ho solo fratelli maschi, e non permetterò che una mia sorella, anche solo per parte di padre, mantenga le distanze con me. >>
Non era affatto oltraggiata della prospettiva che suo padre avesse avuto una figlia naturale, osservò Andrea; ovvio, in realtà: anche se il legame matrimoniale rimaneva sacro, a Damer un uomo non era biasimato se aveva figli illegittimi, a patto che li mantenesse a sue spese. Guardando cosa indossava – aveva gli stessi abiti del revival, solo impreziositi dal fatto di essere in vera seta, questa volta -, Andrea intuì che tanto buone vesti avevano indotto Elyanirith a credere che suo padre l’avesse mantenuta economicamente in modo egregio. Un’ennesima notizia giunta da chissà dove. Andrea s’impose di non farci più caso, esasperata.
<< Forse è meglio che parliamo un poco in privato, Emoreth. >> Riprese a dire Elyanirith. << Capitano Minthean, potete tornare ai vostri incarichi. Maestro Emadnin, la richiameremo se ci fosse nuovamente bisogno di lei. >>
Era un chiaro congedo, ed i due uomini subito s’avviarono verso la porta di legno robusto e ferro alla destra di Andrea, uno mormorando << E’ stato un onore. >> E l’altro << Con permesso, mie signore…>>
Dopo che i due furono usciti, Elyanirith non tardò a sedersi ad un’estremità del letto, sorridendo complice ad Andrea.
<< Quasi mi dispiace d’averti incontrato in questa situazione, Emoreth. Quasi. Anzi, spero che tu accetti di diventare una delle mie dame di compagnia: mio fratello è a dir poco tedioso, mentre mio marito…bè, Diras è un uomo magnifico, ma l’assedio mi permette di godere assai poco della sua compagnia. >> Concluse con un sospiro.
Marito? Quindi Elyanirith era già sposata, nonostante le giovane età; ma la cosa non era affar suo, si disse. Anzi, sogno o meno, Andrea decise di capire meglio dove si trovava.
<< Vostra Altezza…no:Elyanirith. >> Iniziò. << Io…temo di non ricordare bene cosa è accaduto nei giorni scorsi. E’ stato il colpo alla testa, forse. Di che assedio state parlando, se posso chiederlo, e come mai dei principi lo stanno subendo? Ci sono stati forse screzi tra Sua Maestà e voi? >>
Elyanirith sbattè le palpebre, ed il suo sorriso fece posto allo stesso sguardo preoccupato che aveva avuto anche prima, quando Andrea era rimasta muta, scioccata da quelle informazioni intrusive che ancora non aveva capito da dove provenissero: pareva davvero che la donna l’avesse a cuore quanto una sorella, s’accorse stupefatta.
<< Tu…Non credevo che fossi stata colpita tanto forte. >> Rantolò la principessa, tastando delicatamente la nuca di Andrea. << Richiamerò Emadnin al più presto, te lo prometto. Per il resto…Sarebbe pericoloso per te uscire da questa stanza senza sapere nulla, quindi ti dirò tutto. Ma preparati a sentire cattive notizie, Emoreth. >>
Detto questo, Elyanirith ritirò il suo braccio, e nel contempo si morse il labbro inferiore ed abbassò gli occhi; rimase quindi un minuto buono così, guardandosi le mani poste nel grembo, simile ad una bambina sperduta; era evidente che fosse accaduto qualcosa che l’aveva ferita nell’animo, ed Andrea fece quasi per dirle che non era necessario parlarne, quando la donna uscì dal suo mutismo. << Papà è morto, Emoreth. Cinque mesi fa. I medici che lo hanno curato mi hanno detto che è morto d’un brutto male, uno di quelli che nemmeno loro sapevano come curare. Io l’ho visto morire…sembrava soffocare, sorella! >> Concluse Elyanirith con voce rauca, una lacrima che le scendeva lungo il viso.
Hadil, figlio di Hiril, era stato il quarto re di Damer, sovrano per soli sette anni; era morto a cinquantadue anni per un cancro ai polmoni. O almeno, era questo quel che un disperso angolo del cervello di Andrea fece sapere alla donna. Cinquantadue anni erano una buona età, per quell’epoca, ma Andrea suppose che perdere un genitore fosse sempre doloroso.
Ricordarsi appena in tempo di dover fingere che l’uomo fosse stato anche suo padre, Andrea assunse subito un’espressione colpita.
<< Oh… >> Articolò insicura, non sapendo bene cosa dire. << Io…credo di ricordarmi, ora. C’è stato un problema durante l’Adunanza, vero? >> Era la conseguenza più logica, data la situazione: a Damer, morto un re, i suoi vassalli diretti si riunivano nella capitale per eleggere re colui che ritenevano più meritevole tra i figli adulti del defunto; non era mai accaduto nelle tre precedenti Adunanze, ma sarebbe potuto benissimo capitare che l’Adunanza si spaccasse in due a supporto di due diversi candidati. Cercando di non far caso all’ennesima informazione intrusiva, Andrea concluse che doveva per forza essere accaduto qualcosa del genere.
Elyanirith annuì, un timido sorriso che si faceva spazio tra gli occhi lucidi. << Allora qualcosa ancora ti ricordi…Sì, è accaduto tutto durante l’Adunanza. Vedi, Emoreth, i più vecchi dei nostri tre fratelli, Radil ed Hidil, sono due gemelli, e si odiano a morte; papà, sapendo che avevano entrambi molti ammiratori tra i nobili, e temendo che la loro rivalità avrebbe spaccato l’Adunanza e portato alla guerra civile, promulgò una legge. Questa legge, sorella mia, imponeva all’Adunanza d’accettare come re chiunque il defunto sovrano avesse eventualmente indicato come suo successore; come immaginerai, papà proclamò il nostro terzo fratello, Reth, suo erede. Purtroppo, una volta morto lui, i nobili, gelosi dei loro privilegi d’elezione, fecero imprigionare Reth e s’Adunarono lo stesso ad Anor Dion; lì, avvenne ciò che papà aveva temuto: Radil ed Hidil accumularono ognuno pari consensi e l’Adunanza, incapace di convergere su uno dei due nomi, si frantumò. Ora, la maggior parte di loro ha preso le armi accanto al suo principe prediletto, ed una minoranza ha fatto fuggire Reth dalle carceri, essendosi accorta che l’elezione di uno degli altri due avrebbe portato alla catastrofe. >>
Quindi si trovavano in uno stato di guerra civile. << Comprendo, ma…come mai ci troviamo sotto assedio? >> S’intromise a quel punto Andrea. << Sua Altezza…Reth non avrebbe potuto dar battaglia? >>
<< Lo ha fatto. >> Rispose Elyanirith. << Tre mesi fa. Il problema, vedi, è che Radil ed Hidil hanno stretto un’alleanza provvisoria per annientare Reth: per il popolo la parola del re vale molto, ben più delle beghe dei nobili, e per loro nostro fratello è il legittimo sovrano; se non vogliono avere disordini sociali nei territori sotto il loro controllo, perciò, Radil ed Hidil devono per forza uccidere Reth e rendere il trono vacante agli occhi di tutta la gente di Damer. >>
Andrea annuì, impaurita: aveva studiato molti avvenimenti simili, ma sapere di essere nel bel mezzo d’uno di questi le bloccava lo stomaco.
<< Hanno quindi fatto finta di darsi battaglia ad Emad Hiriyaelya, ad una cinquantina di chilometri da qui. >> Riprese Elyanirith. << Purtroppo, i generali di Reth lo avevano convinto ad appostare il suo esercito nelle vicinanze, in modo da piombare poi sui nemici già stanchi; non oso pensare come si sia sentito, quando all’improvviso entrambi gli eserciti sono calati su di lui. >> Concluse con tono funereo.
L’esercito perduto, Reth ripiegò verso la città portuale di Diyar, dove si barricò per resistere al sopraggiungere dei fratelli. Per Andrea fu uno sforzo non storcere la bocca all’affacciarsi di un'altra, ennesima informazione venuta da chissà dove, cosa irritabile soprattutto per il fatto che le giungeva con il tono passato tipico d’un fatto storico, mentre lei stava vivendo quei fatti. Perlomeno ora conosco il nome di questa città senza dover chiederlo ad Elyanirith, si disse: sicuramente sarebbe stato ritenuto troppo sospetto che lei non conoscesse nemmeno come si chiamasse la città, amnesia o no.
<< Il resto lo intuirai da te, se ancora non te lo sei ricordato Emoreth. >> Si fece spazio la voce di Elyanirith fra i suoi pensieri. << Siamo assediati da più di due mesi, ed ormai i nostri indegni fratelli hanno finito di costruire le prime macchine d’assedio, come quella che ha lanciato il sasso che t’ha colpita. >> La sua voce era a metà fra l’affranta e l’acida. << Perlomeno, non abbiamo problemi di vettovagliamento. >>
<< Ah, no? >> Domandò Andrea ancor prima di rendersene conto: Diyar era una grande città, le dicevano le sue misteriose informazioni, e due mesi d’assedio sarebbero dovuti bastare per creare le prime crisi di cibo.
<< Non lo hai presente? >> Chiese Elyanirith un poco stupefatta. << Il porto di Diyar è praticamente l’unico degno di questo nome di tutto Damer: dato che non abbiamo vai avuto interessi oltre oceano, qui, nella nostra più importante base commerciale, stanno quasi tutte le navi del regno. Perciò, è stato facile per noi sbaragliare la flotta residua e creare un nostro flusso commerciale via nave. >> Elyanirith sottolineò il fatto con un gesto della mano. Poi, il volto che ora esprimeva preoccupazione, s’avvicinò ad Andrea per accarezzarla teneramente. << Comunque sia, quest’amnesia mi preoccupa, Emoreth: non credevo ti fossi dimenticata proprio della peculiarità per cui Diyar è famosa. Spero davvero che Emadnin trovi subito tempo per te, quando lo richiamerò. >>
Andrea sperò di non essere arrossita: questa volta la sua misteriosa – e maledetta – fonte non le aveva detto nulla! Un altro scivolone così, si rammentò, e tutto il teatrino sarebbe caduto, amnesia o no. Doveva trovare un argomento che distogliesse Elyanirith da quei pensieri, e subito.
Pensando proprio al riguardo, s’accorse come di colpo che finora era rimasta rinchiusa in una camera da letto a parlare mentre attorno a lei era in corso un assedio; non che volesse davvero esserne cosciente, ma era di sicuro un ottimo argomento deviatore.
<< Io…non preoccuparti, Elyanirith.>> Esordì quindi, alzandosi dal letto nel modo più disinvolto che potè. << Credo che certi vuoti nella memoria siano normali; anzi, ti dirò che, tutto sommato, mi pare di stare meglio, almeno abbastanza da potermi muovere da sola per le strade; forse non ci sarà bisogno che maestro Emadnin mi visiti di nuovo, dopotutto. >>
<< …Ti senti meglio? >> Replicò Elyanirith, esitante; visibilmente combattuta, la osservò per un po’ in silenzio prima di parlare di nuovo. << Speriamo sia così. Non che non creda alle tue parole, Emoreth, >> aggiunse sorridendo, << ma su certe cose penso sia meglio essere prudenti. Però, non mi pare neanche giusto non tenere in considerazione la tua opinione. >> Sbottò un attimo dopo, come se il volto preoccupato di prima non le fosse mai appartenuto. Era una donna dal temperamento focoso ed incostante, s’accorse Andrea; inaspettato, per una persona d’aspetto tanto delicato. << Sai che ti dico? >> Proseguì, imperterrita. << Usciamo da qui, e facciamoci un giro nel castello: male che vada, migliorerai in ogni caso. >>
Senza aggiungere altro, la principessa cinse il braccio d’Andrea e la trascinò letteralmente alla porta senza chiederle altro: e quella era la stessa donna che un minuto prima era tanto esitante? Mentre uscivano insieme dalla stanza, Andrea decise che avrebbe dovuto far attenzione al carattere di Elyanirith, dopotutto.
Il corridoio che s’aprì loro fuori dalla stanza era ampio ed illuminato da molte piccole finestre, le pareti coperte da arazzi ed i pavimenti di tappeti, delle porte che di tanto in tanto apparivano lungo la parete senza finestre: evidentemente, si trovavano in un’ala del castello riservata agli ospiti – cosa logica, dopotutto -. Oltrepassando domestici in livrea bianca ed azzurra ed imboccati uno o due corridoi laterali, le due donne furono presto in vista d’una tromba di scale, ma si trovarono il percorso bloccato da un improvviso viavai di servitori che trafficavano tra le scale ed alcune porte intarsiate, evidentemente gli alloggi d’un personaggio di riguardo.
<< …Per Nereth Che Rende Fertile la Terra, ma cosa sta succedendo?>> Rantolò Elyanirith, palesamente stupefatta. << Quelli sono gli appartamenti di Reth, e… >> Si fermò di colpo, come se avesse intuito qualcosa. << …Che Annath gli faccia tremare la terra sotto i piedi! Seguimi, Emoreth, ho un brutto presentimento. >>
Detto questo, portò – o meglio, trascinò – Andrea verso una delle porte, i domestici che scattarono a farle spazio non appena la videro, rivolgendole rapide riverenze prima di proseguire il loro lavoro.
Le due giunsero quindi in un’ampia stanza soleggiata con grandi vetrate che davano su un giardino più in basso, mobili, tavoli, sedie, poltrone ed un caminetto spento in marmo: la stanza da giorno d’un complesso più ampio. Dentro la stanza c’erano, oltre ai domestici, un giovane sprofondato su una poltrona, vestito con abiti di seta rossa ricamati d’oro, due uomini in armatura, uno giovane ed uno vecchio, ed una donna anziana in un abito di seta blu; vista Elyanirith, il più giovane dei due armati le sorrise, andando loro incontro.
<< Elyanirith, >> esordì questi, un uomo alto sui venticinque anni, i capelli castani mossi ed il volto accuratamente rasato, << stavo per mandarti a cercare: Reth ha… >>
<< Immagino cos’abbia fatto Reth, Diras. >> Ringhiò Elyanirith, quasi senza degnare l’uomo d’uno sguardo, i freddi occhi verdi piantati sul giovane sulla potrona. << E sentiremo tutto da lui. >>
Detto questo, lasciò il braccio d’Andrea per raggiungere a grandi passi quel giovane, mentre Diras si scostava per lasciarle strada, sorridendo. Andrea aveva sempre avuto una buona memoria, ed il nome dell’uomo le aveva fatto subito tornare in mente la sua conversazione con Elyanirith nell’altra stanza: Diras era il marito della principessa; probabilmente, pensò Andrea, il modo freddo con cui l’aveva trattato era un buon indicatore della sua furia. Ma che cos’aveva fatto Reth di tanto grave? E cosa significava quel viavai di servitori? Questa volta, le misteriose informazioni d’Andrea non si fecero vive.
Elyanirith, raggiunto il giovane, non sprecò parole, ma lo prese per la giubba e, costrettolo ad alzarsi in piedi, lo trascinò dove Andrea e Diras si trovavano, tallonata dai due anziani. Il giovane era un poco più basso di Elyanirith ed anche di Andrea, le quali non erano particolarmente alte, ed aveva lisci capelli biondi che gli coprivano metà schiena e due vividi occhi azzurri, la pelle chiara coperta da un filo di duri muscoli.
<< Emoreth, >> esordì Elyanirith, il tono apertamente sarcastico, << hai l’onore d’essere al cospetto di Sua Altezza Reale Reth Hadilin Hesnanian, Principe di Diyar, Primo Generale della flotta del regno ed Erede Designato di re Hadil Hirilin Hesnanian alla Corona di Damer. Reth, >> proseguì, voltandosi verso l’uomo biondo, << lei è nostra sorella di sangue Emoreth Antayaelin: salutala, poi faremo i conti. >> Concluse minacciosa.
Il venire a sapere che lei era una bastarda reale fece alzare le sopracciglia dei due armati e della nobildonna, oltre ad occhiate sgranate e bocche aperte da parte della servitù – Andrea li aveva visti con la coda dell’occhio -, ma l’uomo dai lunghi capelli biondi – Reth – semplicemente grugnì, prima di chinare il capo e mormorare: << E’ motivo di gioia per me conoscerti, sorella: ti do il benvenuto nel mio castello ed al mio focolare. >>
<< Non so come esprimere la mia gioia per aver conosciuto Vostra Altezza ed essere ben accetta alla Sua presenza. >> Rispose sorridendo Andrea, inchinandosi ed alzando le gonne: che fosse ad un passo dall’essere sbranato da Elyanirith o meno, lei non aveva alcuna intenzione d’essere scortese con il principe.
[Modificato da Demandred 26/01/2009 17:43]

------------------------------------------------
"Il profilo aquilino era abbastanza attraente, anche se non proprio del tipo che faceva accellerare il cuore delle donne. In ogni modo, 'abbastanza' e 'non proprio' avevano sempre fatto parte della vita di Demandred."
Email Scheda Utente
Post: 124
Età: 36
Sesso: Maschile
OFFLINE
26/01/2009 17:45
 
Quota

Parte II
Appena Andrea ebbe finito di parlare, Elyanirith proseguì con fare fin troppo spiccio le presentazioni; evidentemente, le premeva dare una lavata di capo a Reth quanto prima. Comunque fosse, Andrea seppe così che l’uomo anziano in armatura, un vecchio canuto sui sessant’anni, stempiato e con dei baffi rigogliosi era Maelserin Hinmaelin Neminian, Duca di Diyarhema in nome di Reth – praticamente il suo castellano – e membro dell’Adunanza; la nobildonna, invece, una signora dai ricci capelli castani ingrigiti ed il cipiglio d’un falco era la moglie di questi, Eyirian Ressayelin Lyrieian. Infine, le fu presentato il giovane di prima, Diras Goryaeran, Principe di Hemannin nonchè primogenito dell’erede al trono di Gorya. E marito di Elyanirith, ovviamente.
<< Da loro non esiste un’Adunanza, >> le disse a quel punto Elyanirith, evidentemente per informarla della curiosa anomalia, << ed a succedere al re defunto è il suo primogenito; in pratica, quando suo nonno e suo padre moriranno, sarà lui il re di Gorya. >>
Questo voleva dire che Elyanirith, essendo sua moglie, un giorno sarebbe diventata regina; Andrea trovò indicativo il fatto che la principessa non evidenziasse questo fatto: ormai iniziava a credere che la donna rifuggisse gli onori come la peste.
<< Bene. >> S’intromise subito Elyanirith non appena le presentazioni si conclusero. << Le formalità sono state esaudite. Ora, >> proseguì, voltandosi verso Reth, << sarei curiosa di sentire la tua versione dei fatti riguardo questo stato di cose, fratello caro. >>
<< Non ho altra scelta, Elyanirith, davvero. >> Sospirò subito Reth, alzando le braccia: era evidente che s’era aspettato una domanda del genere, dato che aveva già la risposta pronta. << Radil ed Hidil stanno per attaccare – quel lancio di pietre di prima preannunciava questo – e noi non siamo abbastanza per affrontarli, lo sai. E poi, >> aggiunse esitante, << anche l’Oracolo ha dato un responso negativo. >>
<< …L’Oracolo? >> Domando incuriosita Andrea, prima di accorgersi dell’errore: qualunque cosa fosse, doveva essere nota a Diyar, ovviamente. Ma perché quelle dannate informazioni non giungevano, quando servivano davvero?
<< Il tempio sacro al dio Annath, sul promontorio, ovviamente. >> Le rispose, dopo un attimo di silenzio generale, la duchessa di Diyarhema – Eyirian, questo era il suo nome, si rammentò - . << Credevo fosse un luogo noto, tanto più che è molto frequentato anche dal popolo; sei giunta in questa città di recente, Emoreth Antayaelin? >> Domandò quindi; fu palese il suo intento di distacco, dato che le aveva negato anche il più formale dei titoli onorifici, quasi a ricordarle che, figlia di re o no, lei non era nobile.
<< Emoreth è stata colpita da una pietra lanciata dagli assedianti or sarà un sesto di marea, Vostra Signoria. >> Intervenne Elyanirith per Andrea, salvandola da uno smascheramento palese ed impedendole di rispondere per le rime a quella vecchia maleducata: copertura o no, non le era mai piaciuto che qualcuno le mettesse i piedi in testa; o forse non l’avrebbe fatto: l’informazione appena giuntale in seguito al termine “un sesto di marea” – una misura di tempo tipica di quelle zone marinare, in quel caso indicava circa un’ora – aveva subito catturato tutta la sua attenzione.. << Il trauma pare le abbia procurato una parziale amnesia, ma credo stia già guarendo. >> Concluse la principessa.
La notizia portò ad Andrea i più o meno sentiti auguri di tutti i presenti, che lei accolse ringraziando formalmente, e solo dopo di ciò il discorso riprese.
<< Sono stata io stessa al tempio. >> Puntualizzò la duchessa Eyirian, indicando un ramo di mirto intrecciato di lana blu posato sul tavolo: il simbolo dei supplici. << Chiesi quindi all’oracolo se avremmo vinto, ma il responso fu il seguente: “Mai Nereth vi concederà di percorrere vittoriosi la terra insanguinata”. >> Declamò atona, per poi guardarsi triste i piedi una volta finito di parlare.
<< E’ una predizione di sconfitta. >> Puntualizzò Reth, come se ce ne fosse bisogno: Nereth era il dio della terra, ed era il maggior protettore degli eserciti che combattevano sul suo dominio, cioè il campo di battaglia; era ovvio che la sua inimicizia determinasse la sconfitta. << Ho già ordinato di portare le nostre cose sulle navi migliori. >> Continuò il principe, indicando il viavai di domestici. << Pensavo di rifugiarmi dal padre di tuo suocero, il re di Gorya; mi accoglierà bene, dato che potrei sposare una delle sue nipoti: tu lo sai bene, dato che sei tornata a Damer con tuo marito proprio per propormi quest’offerta. >> Concluse, un sorriso tirato che cercava inutilmente di stemprare il clima.
<< Un altro matrimonio con la Casa di Hesnan per risolvere definitivamente la questione dell’Arcipelago di Erantha. >> Convenne Elyanirith, scura in volto. << Ammesso che non cambi idea, dato che ormai non hai più alcun potere militare con cui conquistare il trono di Damer. Ma a parte questo, Reth, vuoi lasciare Diyar in balia a Radil ed Hidil? Che Annath ti faccia naufragare, lo sai che questa città è un simbolo della resistenza in tuo nome, il tuo fedelissimo feudo che ti ha sempre sostenuto: raderanno al suolo la città ed uccideranno tutta la popolazione, non negare di saperlo!! >>
<< Lo so, >> ammise Reth con un filo di voce, simile in tutto e per tutto ad un topolino impaurito, << ma non ho altra scelta. Anzi, >> azzardò, tutt’altro che sicuro, << se me ne vado, forse risparmieranno gli abitanti. Che altro potrei fare, rimanere qui per lasciarmi uccidere? Elyanirith, pure il dio mi ha predetto la sconfitta! >>
<< Ad Astath la predizione! >> Sbottò Elyanirith, infuriata. << Ci dev’essere un modo!! Io…>>
<< In effetti, un modo forse c’è. >> S’intromise Andrea, quasi senza accorgersene; al sentirla, però, tutti si voltarono verso di lei, e sotto quegli occhi inquisitori la donna fu sospinta a concludere il suo pensiero, volente o nolente. << Ecco, il fatto è che Sua Signoria ha chiesto se vinceremo, non come: in altre parole, ha chiesto quale sarebbe stato l’esito se ci fossimo affidati agli attuali piani dei nostri strateghi. >> A furia di sentir parlare d’oracoli, ad Andrea era venuto in mente Temistocle di Atene alle prese con quello di Delfi: era da lì che era partita quest’idea. << Se qualcuno formulasse quest’altro quesito, insomma, può darsi che il dio ci dia dei consigli capaci di capovolgere la situazione. >>
<< …Ma è una magnifica idea!! >> Esplose subito Elyanirith. << Hai sentito, Reth? Sono sicura che Annath saprà aiutarci, ponendola così! >> Nel dirlo, sorrise al fratello come una bambina spensierata.
<< Io non sono sicuro che…>> Borbottò esitante Reth, ma la principessa non gli badò: prese il ramo di mirto senza chiedere a nessuno e subito fermò un servitore, ordinandogli di far preparare alle stalle due giumente fresche e due veli festivi; dopo che l’uomo scomparve in un labirinto di scale, Elyanirith si rivolse ad Andrea. << Verresti con me, Emoreth? Dato che sei stata tu ad avere quest’idea, mi parrebbe giusto che tu ci sia. E poi, avrò bisogno di compagnia. >>
<< Oh…certamente. >> Farfugliò Andrea istintivamente, ma anche quando comprese quanto aveva detto, non si ritirò: in realtà, bramava vedere quel tempio oracolare. << Verrò con Vostra Altezza appena vorrà. >>
<< Oh, non essere così formale. >> L’ammonì bonaria Elyanirith, cingendole il braccio. << E comunque, io voglio andarci adesso: vieni, è già tutto pronto, dato che siamo già vestite per uscire. >>
Implacabile come un tornado, la principessa trascinò Andrea giù per corridoi, scale e porte, finchè raggiunsero le stalle dopo aver percorso un giardino fiorito; li trovarono un giovane stalliere che le stava attendendo, che porse loro le redini e due ampi fazzoletti di seta azzurra decorata di bianco: erano i veli festivi richiesti da Elyanirith, degli oggetti che la gente di Damer, uomini e donne, si poneva sul capo quando andava al tempio per le festività religiose, o comunque ogniqualvolta doveva dirigersi verso un luogo sacro.
Postesi entrambe un velo in testa per evidenziare il loro stato di pellegrine, Elyanirith si mise subito in sella, all’amazzone, imitata un attimo dopo da Andrea; uscirono quindi dalle stalle, ed in un paio di minuti furono al portale del castello, il quale dopo un poco venne aperto per lasciarle passare: le proteste del capoguardia nulla erano valse sulla volontà della sua principessa.
<<…Come mai non vuoi una scorta? >> Riuscì a chiederle Andrea mentre percorrevano il ponte levatoio: era quello l’argomento sul quale il soldato aveva insistito, ma Elyanirith non s’era degnata di dare spiegazioni.
<< Radunare una scorta richiede tempo, >> le rispose pigramente la principessa, << e noi non ne abbiamo affatto; ad essere sincera, non vorrei che Reth prendesse il largo prima del nostro ritorno: non abbiamo davvero tempo da perdere, sorella. >> Detto questo, Elyanirith aggrottò le sopracciglia e spinse il cavallo al galoppo: un chiaro segno di nervosismo, pensò Andrea nell’imitarla.
Superata la prima via di terra battuta, occupata dalle case e dai magazzini dei mercanti e dalle locande più care – il quartiere ricco: il porto era poco distante, in modo da servire meglio il castello, e chi faceva affari si trovava quindi in una comoda posizione nel risiedere presso il maniero – , le due s’immisero nella grande piazza del mercato, brulicante di gente d’ogni estrazione sociale; nel superare la folla, Andrea s’accorse che la gente faceva loro spazio, pur essendo due donne sole: era naturale, il popolo era terrorizzato dal commettere il sacrilegio d’importunare dei supplici, la informò la sua testa. Quindi Elyanirith aveva sicuramente messo in conto anche questo nel decidere di rinunciare alla scorta, sospirò.
Superarono il quartiere degli artigiani, il rumore del lavoro che riempiva le orecchie, i templi svettanti dipinti di colori vivaci e scene del mito, l’enorme complesso della Scuola e case di pietra e legno; cavalcarono tra scenari benestanti e popolari per un buono quarto d’ora finchè, oltrepassata un’ultima via, cominciarono a salire una modesta collinetta costeggiata da tanti, piccoli cippi votivi, l’odore del mare vicino ed il rumore delle onde che s’infrangevano sulla scogliera a strapiombo che aumentavano via via che avanzavano. Raggiunta la cima due minuti dopo, davanti alle due si presentò un grande complesso a ridosso del colle a strapiombo sul mare, una serie di edifici posti tra loro a ferro di cavallo, tutti dipinti con tonalità varie del blu e dell’azzurro; subito, videro spuntare da un lungo edificio a destra una ragazzina adolescente dai capelli neri che corse verso di loro per prendere i cavalli; il suo vestito lungo di lana blu la identificava come vergine iniziata del tempio: evidentemente, era il suo turno di badare alle stalle.
Elyanirith neanche badò alla giovane, e lasciò che prendesse gli animali mentre si dirigeva con passo svelto verso l’edificio più lontano, un lungo colonnato coperto dal buio; Andrea s’affrettò subito a raggiungerla.
Il tempio, s’accorse, non aveva porte, ed una luce soffusa proveniva dalle rade vetrate azzurre poste sul tetto, una luce azzurrognola molto evocativa; lungo i lati della costruzione c’erano delle ampie nicchie entro cui erano custodite le offerte dei vari regni che periodicamente attraversavano il mare per consultare l’Oracolo: non era obbligatorio fare offerte, ma un monarca ben sapeva quanto fosse preziosa l’amicizia del tempio. Proprio da una di quelle fuoriuscì un vecchio barbuto coperto da un’ampia veste di seta azzurra ricamata, un sacerdote, il quale, visto il mirto, con un sorriso venne loro incontro e fece quindi strada; l’Oracolo si rivelò trovarsi alla fine del tempio, separato da esso da un muro affrescato color blu ed azzurro, raggiungibile superando una cancellata di bronzo istoriato laccato d’azzurro e decorato da coralli. Oltrepassato quel cancello, Andrea si ritrovò in un ambiente circolare, in realtà una grotta artificiale scolpita nella roccia, illuminata da un’apertura circolare in alto; la luce illuminava uno strapiombo anch’esso circolare, dell’acqua di mare che brillava oscura sul suo fondo, al centro del quale, su una specie d’isoletta rocciosa, stava seduta su un trono scolpito nella roccia salmastra una vecchia dai capelli bianchi, vestita con un lungo abito di seta azzurra e bianca: la sacerdotessa oracolare. Attorno a lei c’erano dei grossi vasi di bronzo lavorato, i quali amplificavano il rumore delle onde del mare.
<< Sono giunta qui per interrogare il dio, Oracolo. >> Le disse senza preamboli Elyanirith non appena la vide; lei non s’era soffermata sull’aspetto del luogo: evidentemente c’era già stata. << Egli ci ha detto che non abbiamo possibilità di sconfiggere chi sta minacciando la nostra città, però è palese che intendesse che i nostri strateghi non possono farlo; perciò, rispondimi: esiste un modo grazie al quale potremmo vincere? >>
La sacerdotessa sbattè le palpebre a quella domanda: non era una cosa che le venisse chiesta facilmente, ipotizzò Andrea; comunque fosse, lo sconcerto della vecchia durò un attimo, e subito dopo s’afflosciò sul trono chiudendo gli occhi. Andrea non avrebbe saputo dire per quanto tempo il silenzio dominò su di loro, interrotto dal solo fragore del mare; dopo quella che le parve un’eternità, la sacerdotessa riaprì gli occhi, risistemandosi sullo scranno.
<< Questa terra ha sempre tratto la sua forza dal mare. >> Disse solennemente la vecchia con voce piuttosto bassa per una donna. << Il dio sa quanto fragili siano le mura di Diyar contro questi invasori, ma forse il mare può opporsi a loro. Però nemmeno il dio può darvi la certezza della vittoria, anche se il mare vi fosse accanto. >>
Elyanirith incurvò le labbra, evidentemente contrariata dalla risposta, ma il vecchio sacerdote che le aveva accompagnate le si pose davanti facendole un inchino: chiaro segno che l’udienza fosse terminata.
Furiosa, Elyanirith uscì dal tempio a grandi passi, seguita da una trotterellante Andrea; una volta uscite, però, si trovarono davanti a loro il principe Diras, il marito della principessa, seguito da una dozzina di cavalieri armati di tutto punto.
<< Reth è salpato poco fa, Elyanirith. >> Disse loro l’uomo prima che potessero parlare. << Ma ha lasciato una nave per noi: vuoi seguirlo? >>
La principessa spalancò la bocca alla notizia, evidentemente troppo colpita per articolare qualunque frase; Andrea, invece, non se ne stupì più di tanto: il principe di Damer non le era parso affatto un coraggioso, e questa sua decisione semplicemente confermava i suoi sospetti.
<< Le Loro Signorie di Duchi di Diyarhema sono salpati con lui? >> Chiese allora lei, senza attendere che Elyanirith si riprendesse: era meglio informarsi il più completamente possibile.
<< Il duca Maelserin? >> Rispose ironico il principe, sorridendo. << No, per quel vecchio senza figli questa terra è troppo preziosa: è rimasto per combattere, e sua moglie lo ha seguito tra i soldati. >>
<< …Allora andremo lì pure noi. >> S’intromise allora Elyanirith, improvvisamente ripresasi. Al vedere gli occhi fuori dalle orbite del marito in risposta alla sua decisione, sbottò: << Non guardarmi in quel modo, Diras! Non lascerò morire questa gente come se nulla fosse, e non mi servirebbe a nulla restarmene nel castello: anzi, dato che l’Oracolo ci ha fornito una qualche risposta, ci andrò proprio per comunicarla, capito?!! >>
Furiosa come non mai, Elyanirith raccolse quindi le gonne e si diresse a gran carriera verso le stalle; Andrea decise di non seguirla: non voleva assistere alle pene della povera stalliera alle prese con la furia selvaggia della principessa.
<<…L’Oracolo vi ha risposto? >> Le chiese in un soffio Diras, mentre seguiva con gli occhi sua moglie.
<< Sì, >> ammise Andrea, << ma io non l’ho trovato di grande utilità. >> Il mare non era il legno di Temistocle, si disse depressa: cos’avrebbero potuto fare, loro?
Un minuto dopo Elyanirith tornò, seguita da quella ragazzina di prima, la quale portava le loro due giumente; furono in sella in men che non si dica, e tutto il gruppo percorse al galoppo le vie della città, ora sgombre: durante il tempo che loro erano rimaste nel tempio, ipotizzò Andrea, qualcuno doveva aver avvisato la popolazione, la quale s’era quindi rinchiusa chissà dove. Galopparono fino agli estremi della città, dove le case finivano e cominciavano gli alloggiamenti dei soldati e le mura di pietra grigia all’orizzonte; raggiunta la cancellata principale, lasciarono i cavalli esausti alle cure degli stallieri e lei, Elyanirith e Diras s’affrettarono a salire le scale del torrione, finchè raggiunsero i duchi di Diyarhema con i generali dell’esercito sulla passeggiata.
<< Buona giornata a voi, mi piacerebbe dire. >> Disse il duca Maelserin non appena li vide. << Ma sappiamo tutti che non è tale; come mai non avete seguito il principe, Vostre Altezze? >>
<< Non intendiamo lasciar morire la città senza far nulla, Vostra Signoria. >> Ansimò Elyanirith, non meno irritata di prima. << Inoltre, ho ottenuto un responso dall’Oracolo: “il mare può opporsi agli invasori”. Non ho idea di cosa significhi, ma mi pare giusto non abbandonare questa possibilità alle onde. >>
A queste parole fece eco un silenzio assordante: tutti si guardavano smarriti, ma nessuno pareva avere la più pallida idea di che cosa significassero quelle parole; ad un certo punto però si fece avanti uno dei generali, un uomo brizzolato e ben rasato, sulla cinquantina, che mormorò: << Forse…il dio potrebbe aver alluso al canto militare. >> Mugugnò, scettico. << Prima di ogni battaglia, s’eleva sempre una lode a Nereth; se però noi la elevassimo ad Annath, che è il mare…non ne sono convinto, ma forse questo permetterà al dio d’infondere forza ai nostri soldati. >>
<< …Dà ordine di farlo, allora. >> Rispose asciutto il duca. << Perlomeno, è una deduzione sensata: voglia Annath che sia davvero così, perché lui sa quanto pochi siamo. >>
E così fu: quando i corni risuonarono nell’aria, una mezz’ora dopo, dai ranghi raccolti attorno agli stendardi aventi ricamata la nave bianca ed oro su sfondo rosso che Andrea aveva già visto, lo stendardo della Casata di Nemin, s’elevò un canto melodioso e struggente.

Oreye syenae
Tu che con le onde possenti
yoen arenoi dirhialenoi ayan hema,
fai tremare tutta la terra,
antara dirine
signore delle maree,
direnyenai nesye, yai ainai ashenen
protettore dei naviganti, della nostra vita
vahoroi enyren sya. Ayn sya tesya
abbi pietà. Lascia che noi percorriamo
aimorsenye ai aliyanin dirin, dirhiali
la distesa marina, le onde
rhonei dirieni ertheni aiteneryen
alte ed i mari furiosi placa.
Eya syan ayn, arlenai dersena ainai aihenen,
Noi ti preghiamo, dei nostri avi giudice severo,
vahen ayane enyren yan nyorano dirie lymnai.
Abbi pietà di noi innocenti che siamo in pericolo nel
[mare


Non che fosse il canto più indicato per un esercito che stava per andare in battaglia, trovò Andrea, ma d’altronde chi avrebbe mai potuto pensare di creare un’ode militare ad una divinità marina?
Il sibilio delle pietre lanciate dalle catapulte interruppe quel suo filo di pensieri: gli assedianti s’erano mossi, ed anche il suono grave delle buccine testimoniò l’inizio della battaglia; Diyar ed il duca Maelserin s’affrettarono a raggiungere i loro distaccamenti, mentre la duchessa Eyirian condusse lei ed Elyanirith nella torre centrale delle mura: ora che gli eserciti s’erano mossi, potevano solo sperare.

Il sole rosso del tramonto illuminava la grossa breccia che le mura avevano subito, circondata da centinaia di corpi di uomini d’entrambi gli schieramenti; alla porta d’ingresso della città, sfondata, Andrea era in sella sulla sua giumenta, accanto ad Elyanirith ed agli altri nobili del loro esercito. La battaglia, inevitabilmente, era stata perduta: loro erano ancora vivi solo perché un nastro nero – la loro concezione di bandiera bianca – era stato posto sullo stendardo ed un messaggero era stato inviato per chiedere un incontro; Andrea si sentiva lo stomaco pieno di piombo fuso al solo pensiero che la sua vita era appesa dalle parole che sarebbero state dette.
Radil ed Hidil, due gemelli monozigoti con lunghi capelli biondi come i loro fratelli, il primo che li teneva raccolti con una coda di cavallo e l’altro sciolti, stavano ritti sui loro cavalli con il loro seguito; d’altezza media e molto muscolosi, erano appena giunti per parlare.
<< Quell’appello all’Oracolo di Diyar che c’era nel messaggio è una tua trovata, Elyanirith? >> Chiese Hidil sorridendo; Andrea sapeva distinguerli: la principessa gliene aveva parlato mentre li attendevano. Ed aveva anche detto che, laddove Radil era ammirato per la sua serietà, la qualità maggiore di Hidil era l’essere di compagnia.
<< Ed anche se fosse? Vi è stato semplicemente ricordato che la città è sacra al dio, Hidil. Oppure siete anche sacrileghi, oltre che usurpatori? >> Ringhiò Elyanirith di risposta; teoricamente, il signore di Diyar era il vecchio Maelserin, ma la principessa non ci aveva messo molto a prendere le redini della situazione.
<< Se la giustizia passa per il filo della spada, gli usurpatori siete voi. >> Replicò Radil asciutto, citando un passò dell’Arlauneian, un loro libro sacro che Andrea riteneva essere una via di mezzo tra i poemi omerici e la Bibbia, come valenza per quel popolo. << In ogni caso, siamo venuti qui proprio perché timorosi del dio. >>
<< Questo vuol dire che ci dirigeremo piamente tutti al tempio, mentre i nostri soldati prenderanno possesso delle porte della città e terranno d’occhio i prigionieri fino al responso oracolare. >> Aggiunse Hidil, chiudendo la questione. <> Aggiunse subito, facendo gesto con la mano al suo seguito.
Andrea lasciò docile che i due fratelli ed i loro generali prendessero la testa della processione, mentre i loro armigeri li accerchiavano come una degradante scorta d’onore; istintivamente, cercò Elyanirith con gli occhi: la donna era rigida e fredda, una maschera indecifrabile, ma Andrea non si sarebbe stupita nel sapere che era turbata quanto lei nel vedere i due accettare tanto facilmente l’imposizione. Era vero che fosse sacrilego assalire una città sacra, ma la principessa le aveva confidato di ritenere quella carta un’ultima spiaggia: Radil ed Hidil erano già andati contro l’opinione popolare vanificando le ultime volontà del loro padre, ed una città sacra rasa al suolo non avrebbe fatto chissà quale differenza, a quel punto; forse intendevano riacquistare consenso tra la gente, ipotizzò con pochissima convinzione.
Quel corteo improvvisato d’una cinquantina di persone a cavallo percorse lugubre le vie deserte della città, il rumore degli zoccoli dei cavalli che riempiva l’aria; ogni tanto, Andrea intravedeva alcune persone sbirciare impaurite da fessure tra le ante delle loro finestre, sicuramente terrorizzate da quella sfilata d’invasori che circondavano i signori locali nell’andare chissà dove.
Raggiunto infine il tempio sul promontorio, Andrea non si stupì neanche di trovare tutti i sacerdoti e le sacerdotesse del tempio fuori dall’ingresso: dovevano aver per forza saputo dell’esito della battaglia, ed il vederli arrivare doveva averli messi in allarme; impauriti non meno di quella gente rinchiusa nelle sue case, si calmarono un poco quando vennero a sapere che erano venuti per far decidere all’oracolo le sorti della città, e non per depredare il tempio.
Lasciati i cavalli sulle stalle, tutti gli uomini si tolsero gli elmi, ed ognuno di loro indossò il proprio velo festivo: evidentemente, il fatto che l’avessero con loro indicava la sicurezza dell’esito del dialogo. Inquietantemente interessante, pensò Andrea indossando il suo, rimasto con lei fin dalla visita di prima.
La processione, adesso a piedi e con i capi velati, seguì allora i sacerdoti attraverso i corridoi del tempio, per oltrepassare quindi i cancelli che portavano alla grotta oracolare; la vecchia sacerdotessa pareva non essersi mossa da lì da quando Andrea l’aveva lasciata, ma il bagliore nei suoi occhi era singolare: percepiva il pericolo che tutti loro stavano correndo in quei momenti.
<< Voce del dio, Oracolo del tempio di Annath, ti prego d’ascoltarmi. >> Intonò Radil, serio e pomposo allo stesso tempo, non appena tutti furono entrati e disposti attorno allo strapiombo circolare. << L’esercito che io e mio fratello comandiamo ha espugnato le mura della città sacra, la stessa che accetta come signore il principe che resiste alle giuste decisioni dell’Adunanza, ed al suo vassallo ribelle che l’amministra; per questi motivi, noi intendevamo incendiare e distruggere le case, passare per filo di spada questa gente indegna e gettare sui campi il sale affinchè, divenuta terra sterile e disabitata, fosse da monito per tutti i ribelli presenti e futuri. Nonostante questo, però, noi giustamente temiamo il dio, ed esitiamo a distruggere questa città a lui sacra. Perciò, io ti domando: cosa ci ordina di fare il dio a noi vincitori? >>
Satura di retorica propagandistica e sfacciata come Andrea s’aspettava, la domanda venne colta dalla sacerdotessa con molta solennità; la vecchia, rimasta in un composto silenzio per alcuni lunghi istanti, s’accasciò teatralmente all’improvviso, gli occhi estasiati rivolti al cielo: davvero, si stava impegnando molto di più rispetto a quando erano venute Andrea ed Elyanirith, pensò la giovane romana.
La sacerdotessa si riprese lentamente alcuni minuti dopo, raddrizzandosi sullo scranno e riportando le pupille a terra con flemma teatrale; alla fine, però, aprì bocca. E disse delle parole che Andrea non avrebbe mai voluto sentire. << Il dio non esercita la giustizia degli uomini: se risparmierete i suoi supplici, egli non cercherà vendetta per la città distrutta. >>
Fu come un segno convenuto, per i soldati invasori: questi furono infatti subito addosso ai membri della delegazione di Diyar, che afferrarono per le braccia per non farli scappare; catturata anche lei come gli altri, pur nella sua folle paura Andrea sentì la risposta di Hidil.
<< Così sia. Soldati, gettate nel pozzo sacro i ribelli: raggiungeremo subito l’esercito per ordinare la distruzione della città, fatta sola eccezione per questo sacro tempio. >>
A quelle parole si sentì mancare le gambe, tanto che venne quasi trascinata verso lo strapiombo; non fu la sola a sentirsi male: la grotta di riempì all’improvviso di grida, urla e preghiere disperate. Ma una in particolare raccolse l’attenzione di Andrea.
<< …Questo non era nei patti!! Non era nei patti!!! >> Urlava, dimenandosi disperata, la duchessa Eyirian. << Io ho portato dei doni da parte vostra al tempio, ho corrotto l’Oracolo affinchè desse un vaticinio negativo per Reth, ci siamo accordati perché decretasse la fine della città…ma in cambio del perdono per la Casa di Nemin!!! Traditori!! Spergiuri!! Non erano questi i patti…Io non voglio morire!! Per Annath, lasciatemi, non voglio morire!!! >>
Quelle parole furono un pugno nello stomaco: la duchessa andata di persona al tempio, il sacerdote appena uscito da una nicchia del tesoro quando loro due erano giunte, le risposte sibilline dell’oracolo…tutto tornava. Andrea si ritrovò a singhiozzare rumorosamente.
Poco più in là, il vecchio Maelserin pareva essere già stato ucciso dalle parole della moglie, trascinato di peso dai soldati verso il pozzo, mentre Diras si dimenava selvaggiamente, gridando con tutto il fiato che aveva il nome di sua moglie, disperato; Elyanirith, da parte sua, guardava vacua verso di lui, pallida e come senza più cognizione. Hidil stava guardando impassibile la scena, mentre Radil s’era voltato, improvvisamente assai interessato alle sue scarpe; la sacerdotessa, dal canto suo, si guardava con aria estremamente colpevole le mani giunte nel grembo.
Quando venivano gettati giù verso il pozzo, gridavano tutti, e quando fu il suo turno Andrea s’unì a quel terrificante coro, certa di stare per morire, ingoiata da quella fredda acqua che riluceva sinistra sul fondo.

********************

L’acqua fredda le morse il viso, facendola ansimare; eppure, non era stato uno scontro violento.
<< …Credo che basti, vecchio Mario: mi pare che Rea abbia aperto gli occhi. >>
Jennifer? Era una voce che le pareva di non sentire più da una vita: era tornata a casa sua?
Una mano forte la capovolse, e riuscì, pur sfocatamente, a vedere un paio di familiari baffi brizzolati; un attimo dopo, quella stessa mano le schiaffeggiò lievemente una guancia.
<< Sì, pare anche a me: gli occhi, perlomeno sono aperti. >> Constatò la voce burbera di Mario, il proprietario de Le Oche Capitoline.
<<…Sono sveglia. >> Riuscì a quel punto a rantolare Andrea: adesso che s’era resa conto di non essere più in una città espugnata, ad un passo dalla morte, avrebbe voluto cantare e ballare. << Sono sveglia. >> Ripetè, deliziata.
<< Sì, ce ne stupiamo tutti noi. >> Disse allegramente Elisa mentre l’aiutava a rialzarsi. << Immagino che neanche Davy Jones sarebbe sopravvissuto a due miserabili, fottute bottiglie di Cuba libre, giusto? >>
<< …Oh, piantala, Elisa: ho la testa che sembra essere appena stata colpita da una scogliera. >> La zittì Andrea, barcollando. << ..Enrico, per favore, sorreggimi: dopo una giornata così, voglio assolutamente essere a casa mia al più presto. >>
Esitando – forse perché fino a poche ore prima avevano litigato -, Enrico mise un braccio di Andrea attorno al suo collo, mentre tutto il gruppo uscì dal locale per uscire nelle strade illuminate dalla luna e dai lampioni.
Camminando barcollante, Andrea intravide quasi per caso il vecchio castello del paese, testimone silente di mille anni d’assoluta apatia paesana; quella sera però non criticò, ma bensì invidiò tale pace.

------------------------------------------------
"Il profilo aquilino era abbastanza attraente, anche se non proprio del tipo che faceva accellerare il cuore delle donne. In ogni modo, 'abbastanza' e 'non proprio' avevano sempre fatto parte della vita di Demandred."
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi

Discussioni Recenti
Annunci



Free Domain at .co.nr Use OpenDNS
Pit of Doom
The Wheel of Time books and franchise are copyright © Robert Jordan. The phrases "The Wheel of Time™" and "The Dragon Reborn™", and the snake-wheel symbol, are trademarks of Robert Jordan.
Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra | Regolamento | Privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 01:52. Versione: Stampabile | Mobile - © 2000-2024 www.freeforumzone.com