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la Repubblica
23 agosto 2005

LA POLEMICA
Io, meticcio immigrato che Pera non vuole
GAD LERNER

Sono un meticcio immigrato nella penisola italiana ormai quasi mezzo secolo
fa, di quelli che rischiano d´inquinare la pura razza toscana cui appartiene
il presidente del Senato, Marcello Pera. In effetti ho generato dei figli
con donne italiane. Nei giorni scorsi giocavano a pallone in Maremma con
gli agenti della scorta di Pera, probabilmente mentre lui stava rinchiuso
a cogitare il suo discorso di Rimini. Spero la circostanza non lo inquieti
troppo. Loro non si sentono meticci, ma italiani. Come me.
Quando nel novembre 2004 Pera dichiarava a questo giornale: «Noi liberali
non dobbiamo più limitarci a dire "non possiamo non dirci cristiani". Ma
adesso "dobbiamo dirci cristiani". E tutti gli europei dovrebbero dirlo.
Soprattutto se laici», potevo ancora limitarmi a sorridere: liberale dei
miei stivali. Ma adesso non mi diverto più. Stiamo parlando della seconda
carica dello Stato.

Io, il meticcio

È assai grave vedere proprio lui, che secondo la norma costituzionale potrebbe
essere chiamato in ogni momento a garante supremo dell´unità nazionale, trasformarsi
in un pusher d´identità artificiali e manipolate. Pera scherza col fuoco
senza saperlo quando dichiara: «In Europa la popolazione diminuisce, si apre
la porta all´immigrazione incontrollata e si diventa tutti meticci». E quando
richiama l´esigenza di una società "virtuosa" aggettivando la democrazia
con inediti termini minimizzanti: «Una democrazia relativista è vuota», dice,
«ci fa perdere identità collettiva e ci priva di qualunque senso obiettivo
del bene».
Magari bastassero i richiami al Sinai, al Golgota e all´Acropoli per definire
il senso obiettivo del bene nella società contemporanea. Possibile che non
si colga il pericolo insito in questo richiamo frettoloso alle tradizioni,
in questa bolsa retorica della riscoperta delle radici che affligge ormai
il lessico pubblico?
Non sta a me giudicare la disinvoltura manifestata nella ricerca affannosa
di una nuova identità da un leader politico che solo due anni prima di enunciare
l´imperativo "dobbiamo dirci cristiani", si dichiarava contrario a che nel
preambolo della Costituzione europea figurasse un richiamo esplicito alle
"radici giudaico-cristiane". Con quel prefisso, "giudaico", peraltro frettolosamente
appiccicato in barba a secoli di storia.
In tempi di chirurgia estetica, anche Pera è libero di rifarsi i connotati
intellettuali. Ma la sua vicenda pubblica rivela la vera malattia delle nostre
società spaesate, su entrambe le sponde del Mediterraneo e un po´ dappertutto
in giro per il mondo: l´illusione che le identità, singolari e plurali, possano
essere costruite a tavolino, frugando nel passato e invano cercandovi rassicurazione,
coesione, orgoglio d´appartenenza.
Pera fa un uso dei simboli non molto più sofisticato di quello che va per
la maggiore nelle curve degli stadi di calcio. Con il rischio di produrre
effetti ancora più nocivi. Ha paura del meticciato che caratterizza la nostra
metropoli globale. Contribuisce a demolire il paradigma culturale universalistico
? quello sì felice prodotto storico dell´evoluzione delle culture giudaica,
cristiana e illuminista ? in base al quale siamo giunti a considerare gli
uomini tutti uguali e dunque titolari dei medesimi diritti. In quel suo parolaio
sentirsi già in guerra ? ma perché non partono mai volontari, questi predicatori?
? risuonano gli echi della "nouvelle droite" europea che non celebra più
la superiorità razziale, ma insiste sulla "naturale" differenza fra gli esseri
umani.
Non solo. L´inedito attacco alla democrazia "relativista" apre nuovi interrogativi
sulla fonte della sovranità. A chi spetta la corona? Il potere torna a essere
legittimo quando viene insignito dall´alto? Gli spacciatori d´identità manipolate
si assumono gravi responsabilità in tempo di guerra, specie se rivestono
importanti cariche pubbliche. La loro propensione alla metamorfosi, magari
solo con lo scopo di improvvisare una nuova armatura culturale che dia forma
a uno schieramento politico in crisi, vista l´impossibilità di riproporsi
liberale e liberista, è segno di debolezza.
Marcello Pera farebbe bene a prendere lezioni da Ariel Sharon, un leader
conservatore disposto a scontrarsi duramente con le tendenze integraliste
che minacciano la natura laica dello Stato israeliano; consapevole di come
una falsa esegesi biblica abbia prodotto effetti devastanti in seno alla
stessa comunità nazionale.
Ma il discorso di Rimini è rivelatore anche di una degenerazione parossistica
in cui precipita la storica tendenza italiana al trasformismo, raggiungendo
le più alte sedi istituzionali. Già una terza carica dello Stato, l´ex presidente
della Camera, Irene Pivetti, si era resa protagonista di singolari trasformazioni:
da leghista a seguace di Mastella; dal tailleur della cattolica vandeana
all´abbigliamento fetish studiato per lei da crudeli costumisti televisivi.
Adesso tocca alla seconda carica dello Stato. Pera come la Pivetti? Magari,
sarebbe il danno minore. Ecco dove porta l´ossessione della ricerca delle
radici.


INES TABUSSO