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CORRIERE DELLA SERA
supplemento CORRIERE ECONOMIA
12 giugno 2006
Giudici & Finanza
Tornano i magistrati: per l’economia pulita.

Tornano i magistrati - Greco, Borrelli, Di Pietro e D’Ambrosio - sul fronte dell’economia pulita. E denunciano il rischio di tagli alla giustizia
«Manovra» del Pool: 5 miliardi tolti al crimine
A tanto ammonterebbe il bottino sottratto a mafia, camorra e furbetti vari da riportare subito alla ricchezza nazionale
Gli spunti di cronaca sono fin troppi per non essere interpretati come segnali. Francesco Greco, il magistrato che coordina a Milano le indagini sulla criminalità economica, «debutta» all’assemblea di Bankitalia accogliendo l’invito di Mario Draghi e interviene al Festival dell’economia a Trento; il ministro Antonio di Pietro alza la voce sul dossier Autostrade-Abertis; l’ex capo di Mani Pulite Francesco Saverio Borrelli corre oggi sul campo di Calciopoli e il suo vice Gerardo D’Ambrosio milita fra i senatori ds; il gip Paolo Ielo dopo tanto tempo si rivede in tv a Ballarò. Insomma, il «Pool dell’Economia» sembra chiamato più che in passato a partecipare alla governance pubblica, a contribuire a comuni riflessioni su impresa e finanza. E la risposta dei giudici appare «militante»: nessuno si tira indietro. Gli indizi non sono sfuggiti in primo luogo agli economisti, in passato per lo più diffidenti nei confronti del know how contabile dei magistrati, ritenuti poco avvezzi a bilanci e a ragionamenti su «Stato & mercato». E le interpretazioni offrono letture che contengono importanti fatti nuovi. Così secondo Tito Boeri, direttore della Fondazione Rodolfo Debenedetti e fra i fondatori del sito lavoce.info dal Pool dell’Economia «provengono interventi che richiamano al rispetto delle regole e a un maggiore ruolo della sanzione sociale dei comportamenti devianti. Sono riflessioni comuni a magistrati ed economisti». Aggiunge Salvatore Bragantini, ex commissario Consob: «Richiami come quelli di Greco possono servire ad aumentare la consapevolezza di tutti sul costo di certi comportamenti. Un focus particolare è dunque rivolto ai vertici aziendali perché sorveglino e sanzionino i comportamenti interni. La magistratura può lavorare sulle eccezioni e non riesce comunque a reprimere un sistema».
Proprio qui sembra esserci il punto d’incontro della riflessione. Giudici ed economisti sono convinti che non sia più rinviabile la costruzione di una «economia della reputazione», di stile anglosassone, che trae forza dal network delle authority, dall’autoregolamentazione, dai comportamenti e dalle sanzioni interne al mercato. Se il «vecchio» Pool ha lavorato sulle collusioni fra pubblico e privato, sull’«economia della tangente», i magistrati di frontiera oggi (come Eugenio Fusco e Giulia Perrotti) combattono «l’economia dei furbetti». Ben consapevoli che intorno alle scalate su banche e Rcs c’è il mare dei comportamenti illeciti, delle collusioni, degli arricchimenti spregiudicati. E’ un giudice a rilevare (non citabile) quanto da noi sia lontana la «"cultura della vergogna", della sanzione sociale, se chi fa affari non ha problemi a concluderne con chi è già stato condannato per insider trading». I magistrati, come ha sottolineato Bragantini, possono lavorare sulle eccezioni, sulla grande patologia, non sui comportamenti di sistema. Possono però, sono chiamati a farlo e non si ritirano, contribuire a costruire la cultura della reputazione.
Un secondo terreno di riflessione comune fra magistrati ed economisti è stato ribadito proprio a Trento da Greco. E’ quello della ricchezza di provenienza illecita trasformabile in ricchezza pubblica. Il percorso va accelerato il più possibile per due ragioni: si tratta di patrimoni ingenti; confische e sequestri possono contribuire a scoraggiare comportamenti illegali facendo leva (sottolinea un magistrato) sul principio pragmatico che «così passa il vizio» e sulla considerazione che così le organizzazioni criminali vengono private delle risorse necessarie al loro sviluppo. Di recente si è parlato dei 500 milioni bloccati nell’inchiesta Antonveneta. Somma già rilevante che si va ad aggiungere, secondo i calcoli realizzati da Marco Arnone e Elio Collovà in uno studio pubblicato su la voce.info , ai 4,2 miliardi sottratti alla criminalità organizzata in via temporanea o definitiva fra il 1992 e il 2005 e in parte già riportati all’economia legale. Valori più o meno equivalenti allo 0,3-0,4% del Pil delle regioni Sicilia o Campania e all’1% degli investimenti effettuati in quest’ultima.
Riflessioni comuni rendono però ancora più forte l’allarme che proviene dagli stessi magistrati. Preoccupati dei tagli alla Giustizia. «Lavoriamo in una situazione di puro volontariato - ha detto Greco a Trento - Ci tolgono anche le mail». Un appello che non mette in evidenza soltanto un problema di equilibri fra poteri. Da componente del Pool dell’Economia, Greco sposta il tiro anche sullo sviluppo. Al quale la magistratura può partecipare favorendo l’economia della reputazione e «mettendo le mani in tasca ai delinquenti».




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Maurizio Sacconi (Forza Italia)
«La superprocura? Ne diffido»
C i tiene a dire che il suo è un ragionamento di carattere generale. Insomma, nessun giudizio personale. E, dunque, sul tema giudici-economia, Maurizio Sacconi, oggi Forza Italia, ieri socialista, sottosegretario al Welfare nel governo Berlusconi e in passato sottosegretario al Tesoro nel primo governo Amato, fa soprattutto due considerazioni. La prima è che l’evoluzione dei reati finanziari, la loro crescente complessità, «ripropone anche per la magistratura il tema della formazione continua, tanto invocata per qualunque competenza e a maggior ragione, dunque, per chi è chiamato all’alta funzione giudicante o inquirente». La seconda, è un auspicio. E, cioè, che «quella parte minoritaria della magistratura, dichiaratamente ideologizzata, non sia portatrice di una cultura ideologizzata e anti mercato anche in campo economico. Perché - aggiunge il senatore - un’economia di mercato regolata richiede una solida e compiuta cultura di mercato, liberale, che è fondata sulle regole e sulle loro applicazione».
Quanto all’idea, che a tratti ricorre, di una magistratura specializzata, ne diffida. «Condivido naturalmente - dice Sacconi - la posizione della mia parte politica per un altro tipo di specializzazione fondamentale tra magistratura giudicante e inquirente, mentre sono diffidente verso le forme dei tribunali speciali». E spiega che, dal momento che trattare di società quotate, come sta accadendo a diverse delle inchieste in corso, è delicato perché si possono colpire interessi di terzi incolpevoli, è necessaria - sostiene Sacconi - un’attitudine «giustamente garantista, dove con questo termine non ci si riferisca soltanto al soggetto inquisito ma, a maggior ragione, alle garanzia dei terzi incolpevoli». Occorre, cioè, il rifiuto - prosegue l’ex sottosegretario - di qualunque attitudine a una giustizia sommaria, come pure è necessario avere «un doveroso riserbo, oltre al rispetto del segreto d’ufficio. Ma questi sono requisiti generali del procedimento cui fare riferimento. Non occorre essere specializzati per evitare fughe di notizie».
Semmai, quello che lo preoccupa sono i due piani che intravede nel dibattito odierno: da una parte, il rigore nei confronti della criminalità economica, dall’altra la discussione sull’amnistia e la grazia a Bompressi. «Noto - dice - che c’è contemporaneamente una discussione di questo tipo. Ma nel momento in cui ci poniamo, giustamente, il problema della repressione della criminalità economica, non vorrei che si affermasse una gerarchia del disvalore in cui i reati di sangue politicamente motivati finiscano sotto quelli finanziari».
M. S. S.




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Parla Alberto Crespi, per trent’anni avvocato di Cuccia
«Si limitino ad applicare le leggi»
C he con il loro lavoro i magistrati finiscano per determinare fatti economici, anche notevolmente importanti come il caso Fazio-Banca d’Italia ha dimostrato, è indubbio. Eppure, secondo Alberto Crespi - professore emerito all’Università Statale di Milano, penalista tra i più noti, per trent’anni avvocato di fiducia di Enrico Cuccia - i magistrati italiani non hanno cultura economica e non ne hanno nemmeno bisogno. Perché?
«Nel curriculum di studi di un giurista l’economia politica è, fondamentalmente, una materia culturale, che serve per capire i problemi nelle grandi linee; permette di comprendere le pagine economiche dei giornali, ma niente di più. Mentre oggi, per essere bravi economisti non bastano le leggi della domanda e dell’offerta ma, per esempio, bisogna conoscere anche la matematica . Insomma, bisogna studiare economia. Giudici, avvocati e professori di diritto, invece, devono avere una formazione giuridica, altrimenti si rischia il dilettantismo».
Ma le inchieste sulle grandi scalate mostrano un’interconnessione sempre crescente tra giustizia ed economia.
«Il giudice dovrebbe limitarsi a interpretare e applicare le norme che disciplinano i rapporti economici. Soprattutto, deve evitare che possano essere orientati dalla cultura del sospetto».
In che senso?
«I magistrati si avvicinano a questo settore dello scibile giuridico con una preoccupazione: essere imbrogliati. E vedono nelle manovre, anche disinvolte, qualcosa di illecito, se non di illecito penalmente sanzionabile. Questo atteggiamento va abbandonato. Se le regole del mercato sono state rispettate, con i titoli azionari posseduti ogni privato cittadino deve poter fare ciò che vuole».
Lei, dunque, è critico nei confronti dei magistrati.
«No, dico solo che non bisogna entrare a gamba tesa perché ciò può provocare danni ai risparmiatori. I giudici devono essere determinati, ma senza ripromettersi di colpire un bersaglio prima di aver capito cosa dev’essere represso. E per questo basta la cultura giuridica».
Da Tangentopoli alle grandi scalate, che cosa è cambiato?
«Intanto, la corruzione non è stata affatto eliminata, anzi è stata resa più macroscopica: è ingenuo pensare che basti Mani pulite per eliminarla, è come credere di battere la prostituzione con la chiusura delle case chiuse. La corruzione è una questione di costume».
E le grandi scalate?
«Quando si tratta di società quotate ci sono regole ben precise. Regole che sono state violate sia nel caso di Antonveneta, sia in quello Bnl. Anzi, la mia impressione è che ora la procura di Milano si stia muovendo su Bnl, visto che a Roma non si sono mossi».
Perché?
«La verità è che ci sono istituzioni che non sempre hanno adempiuto al proprio dovere. Penso, in particolare, ai casi Cirio e Parmalat. E, prima ancora, a Fondiaria-Sai, che è il più clamoroso caso di concerto nella storia economica italiana, ma la Consob se ne è resa conto mesi dopo e il tutto si è concluso con una semplice sanzione amministrativa. Le regole ci sono, non si capisce perché a un certo momento non siano applicate e perché non ne venga sanzionata la violazione. Ma il caso più sconcertante è Bnl, dove le numerose istanze presentate alla Consob sono rimaste lettera morta. Non è questione di preparazione, ma di mancanza di volontà».
Non le sembra che i giudici finiscano per decidere su situazioni importanti dell’economia?
«È il codice Rocco che ha dato loro questi poteri, e giustamente. L’impressione è che lo stallo della posizione del precedente governatore della Banca d’Italia (Antonio Fazio, nda ) sia stato rimosso proprio dalla presenza dei poteri dei magistrati».
Con Tangentopoli si disse che la magistratura suppliva alla politica. Con le inchieste sulle scalate ha supplito a mercato?
«Con Tangentopoli ci fu una supplenza indiscutibile, nelle grandi scalate non direi».
Da Enimont ad Antonveneta, come ritiene che siano cambiati i giudici?
«Si sono specializzati. Anche se resta la sensazione di una cultura del sospetto, che già di per sé solleva problemi. Per questo, il mio invito ai giudici è che si faccia in modo che - e qui rovesciamo i termini - il sospetto di questa "cultura" non debba più sorgere».
Quando un giudice deve agire?
«Quando ha individuato un illecito. Se, invece, ci sono stati solo dei rumors, come si dice, o dei movimenti strani sui titoli, è la Consob a dover intervenire, il magistrato deve stare fermo. A meno che la situazione non degeneri sul piano della pubblicità e il magistrato abbia la sensazione di un illecito determinato. Nella vicenda Ifil-Exor (nella quale Crespi ha espresso parere favorevole alla competenza dei giudici di Torino, riconosciuta pochi giorni fa dalla procura generale presso la Cassazione, nda ), per esempio, i giudici si sono mossi a seguito del rapporto della Consob».
Roma, Torino, Milano. Ma anche Parma, con Parmalat. Una indagine fatta in una città grande piuttosto che in una piccola può dare un esito differente?
«Come ho detto, sulla Bnl Roma non si è mossa… E Parma non è una sede piccola. Certo che lascia molto perplessi che a Parma sia stato contestato a un revisore contabile di non aver chiesto il fallimento di Parmalat, e di conseguenza aver aggravato il dissesto della società. Una contestazione che giuridicamente è un non senso in ogni caso».
Occorrono dei tribunali specializzati?
«Non credo. È il capo dell’ufficio che dovrebbe scegliere il magistrato giusto».
C’è un altro grande tema quando si parla di giustizia: la comunicazione. Quando può parlare un magistrato?
«Il giudice deve parlare con le sentenze; e deve saper eludere le domande. Aver dato in pasto al pubblico le intercettazioni è una scorrettezza enorme. Quando ci sarà il deposito degli atti, lasciamo che siano gli avvocati ad assumersi le loro responsabilità».
Francesco Greco ha suggerito di usare il denaro confiscato nelle inchieste per ridurre il deficit pubblico. Condivide?
«Trovo difficile che un magistrato possa esaminare lo stato delle finanze pubbliche, ma credo che sia giusta l’accusa che finora lo Stato abbia perduto parecchi soldi».
MARIA SILVIA SACCHI

INES TABUSSO